E’ una storia delicata e complessa, che mostra quanto sia difficile per un medico fare i conti con la propria coscienza. Una dottoressa obiettrice di coscienza è stata condannata a un anno di reclusione per non aver prestato soccorso a una donna che si era sentita male dopo aver abortito. La condanna è arrivata perché, secondo la Cassazione, la legge 194, che riconosce il diritto all’obiezione di coscienza, obbliga comunque il medico a non astenersi, in caso di necessità, dal prestare assistenza al paziente, prima o dopo l’intervento. In pratica, il medico obiettore non può rifiutarsi di prestare soccorso alla donna, prima o dopo l’aborto, qualora se ne manifestasse il bisogno: deve in ogni caso assicurare la tutela della salute e della vita di quella persona anche se si trova in quelle condizioni per aver praticato un aborto. Secondo il dottor Gianluigi Parenti contattato da ilsussidiario.net, “tutto dipende molto da come il primario gestisce il suo rapporto con i medici obiettori. Se possibile, cioè, evita loro di entrare in tutta la cosiddetta catena dell’aborto, che vuol dire anche effettuare prestazioni successive all’aborto stesso“. Ma poi aggiunge, “ovviamente, bisogna anche considerare la forza medica a disposizione. Certo un medico non può rifiutarsi di prestare soccorso a un paziente, e questo caso dimostra quanto sia difficile e delicata la condizione in cui vivono i medici obiettori“.
Questo caso apre ovviamente molte questioni difficili da interpretare. Lei che idea si è fatto?
Diciamo intanto che il medico obiettore di coscienza non entra in quella che si definisce “catena dell’aborto” e questo lo garantisce la legge 194. Non ci entra con la certificazione, non ci entra con le visite mediche e non ci entra, ovviamente, con la metodica dell’aborto. Tuttavia, anche se può evitare la procedura delle dimissioni, non è sempre facile rimanere fuori dal “punto finale” della catena.
Perché?
Tendenzialmente, se il primario ha un certo tipo di attenzione verso il medico obiettore sta attento a non farlo entrare in tutta la dinamica, appunto nella catena dell’aborto. Naturalmente se c’è un problema di salute della paziente dopo l’aborto – per esempio un rischio di sanguinamento – oppure altre complicanze, è chiaro che un medico di guardia deve intervenire. E’ chiaro che il medico non interviene sulla metodica e sulla catena che portano all’aborto. Non conosco i particolari del caso in questione ma tendenzialmente direi che se l’intervento abortivo si è concluso e la donna ha problemi, un medico anche obiettore non può esimersi dal prestare soccorso.
E’ evidente che la vostra situazione non è facile. Vi trovate davanti a eventi che pongono molte domande.
Dipende molto dai colleghi con i quali lavori. Ci sono persone – chiamiamole “illuminate” – ad esempio il mio primario, che ha grande rispetto per la mia scelta di obiettore e permette a quelli come me di astenersi del tutto dal rapporto medico con chi pratica l’aborto. Ma non sempre è così e non tutti i primari sono uguali. Si tratta di agire davanti a problematiche morali, di fatto si è sempre posti di fronte a una scelta.
Non è così facile decidere quanto un medico possa entrare o no nella catena dell’aborto. Però ripeto: se una donna è ricoverata e sta male, il medico deve prestarle soccorso.
Può succedere che un medico si trovi da solo, senza un sostegno da parte di altri colleghi, tanto da arrivare a situazioni come quella del caso in questione?
Spesso ti trovi a dover prendere decisioni rapide. Bisogna decidere come muoversi, ti chiedi se fai bene o fai male dal punto di vista morale. C’è anche il rischio di rimediare denunce; oggi viviamo in una società abituata a “pensare male” di tutto e di tutti, una società nella quale si cerca in tutti i modi di ottenere risarcimenti in denaro. Hai sempre gli occhi puntati addosso, se ti muovi o non ti muovi rischi sempre di sbagliare. C’è un carico di tensione notevole e lo dico anche per i non obiettori. Un medico ha sempre paura di muoversi nel modo sbagliato e di subirne le conseguenze legali. A questo va aggiunto il grande problema morale che abbiamo noi medici obiettori.
Medici in prima linea, è proprio il caso di dirlo.
Dipende anche dal reparto in cui lavori. Come dicevo prima, molto dipende da come il primario imposta il rapporto con gli obiettori di coscienza e se ha personale sufficiente per evitare che un obiettore debba essere costretto a intervenire comunque nella catena dell’aborto, in qualsiasi momento. Ci sono reparti nei quali non è possibile rimanere fuori almeno dalla procedura delle dimissioni. Ci sono poi zone d’ombra che riguardano soprattutto i consultori. Ma si tratta di una questione delicata. Dipende molto anche dall’attenzione che i tuoi colleghi hanno nei tuoi confronti.
di Gianluigi Parenti