Pronti, via: inizia il lavoro del nuovo governo ed è subito polemica. Interventi sul lavoro, politiche scolastiche, collocazione internazionale? No, la pietra dello scandalo, per l’opposizione, è la scelta di Giorgia Meloni di utilizzare l’articolo determinativo maschile “il” e non quello femminile “la” davanti alla carica di presidente del Consiglio.
Dunque, nei documenti ufficiali Giorgia Meloni d’ora in avanti è il presidente del Consiglio e non la presidente del Consiglio. Apriti cielo! La più scandalizzata, a mezzo Twitter, è Laura Boldrini. «La prima donna premier si fa chiamare al maschile, il presidente. Cosa le impedisce di rivendicare nella lingua il suo primato?», scrive l’ex presidente della Camera. Che rincara: «La Treccani dice che i ruoli vanno declinati». E infine si chiede: «Affermare il femminile è troppo per la leader di Fratelli d’Italia, partito che già nel nome dimentica le Sorelle?». Chissà se Laura Boldrini vorrebbe anche modificare l’inno d’Italia, visto che Goffredo Mameli, quando scrisse Il Canto degli italiani, fu così misogino da non includere nel concetto romantico di “fratelli d’Italia” il termine “Sorelle”.
Ma, messa da parte la storia, a un occhio attento non può che spiccare una contraddizione nelle odierne battaglie in favore del linguaggio cosiddetto inclusivo. Da anni, infatti, schiere di sedicenti femministe si battono affinché il lessico valorizzi il genere femminile: di qui la richiesta di abbandonare l’antica prassi linguistica italiana per cui il neutro viene assorbito dal maschile a beneficio di neologismi come ministra, sindaca, architetta, e così via. Sulla questione è intervenuta anche l’Accademia della Crusca, con un’apertura nei confronti di chi vuole innovare il linguaggio in funzione del genere. Ed è proprio all’insegna di una presunta valorizzazione del genere femminile che si colloca l’istanza in favore dell’articolo “la” in sostituzione di “il”.
Curioso, molto curioso, tuttavia, che quanti si battono per le declinazioni femminili dei termini siano spesso gli stessi che perorano un’altra battaglia linguistica: l’annullamento delle desinenze maschili e femminili in favore del neutro. Ecco allora che da qualche anno, sugli striscioni dei centri sociali così come in certe rubriche di giornale à la page e persino in qualche documento ufficiale del Miur, iniziano a comparire gli asterischi o gli schwa al posto delle desinenze. Invece di scrivere «Ciao a tutti», secondo questi guru dell’innovazione del lessico, si dovrebbe scrivere «ciao a tutt*» o «ciao a tuttə». E c’è chi addirittura ha introdotto una non meglio precisata “u”, nel salutare con «ciao a tuttu».
Insomma, quanti caldeggiano nel lessico una sorta di affermazione enfatica del genere femminile sono gli stessi che vorrebbero abolire i generi mediante detonatori grammaticali come asterischi e schwa. Inoltre, come se non bastasse, con il caso Giorgia Meloni emerge un’altra ipocrisia: da anni ci dicono che va rispettata l’autodeterminazione “lessicale” delle persone, dunque doverle chiamare con il genere e il pronome che preferiscono – qui si innesta anche la pericolosissima Carriera Alias – altrimenti sarebbe una discriminazione nei confronti della loro volontà. Dunque perché questa sorta di autodeterminazione vale soltanto a correnti alterne? Perché non rispettare una donna che vuole essere chiamata come IL presidente?
Non resta che invitare costoro a mettersi d’accordo: o l’una o l’altra battaglia, non si può invocare maggiore spazio per il genere femminile e, allo stesso tempo, invocare l’eliminazione dei generi. Si decidano, ma lo facciano nei loro circuiti intellettuali. Lascino che la maggioranza degli italiani continui a scrivere nella lingua dei propri padri occupandosi di problemi reali.