22/04/2020

Il sì all’aborto di un giudice americano nonostante il Covid-19

L’aborto s’ha da fare. A prescindere: nonostante la pandemia, i rischi e tutto quello che comporta. Questo l’incredibile verdetto con cui, alla fine della scorsa settimana, il giudice federale Bernard Friedman, classe 1943, di nomina reaganiana, ha invalidato la decisione dello Stato del Tennessee di sospendere temporaneamente quella che, edulcorando molto, viene chiamata interruzione volontaria di gravidanza. L’8 aprile scorso, infatti,  il governatore repubblicano Bill Lee aveva saggiamente decretato la sospensione delle procedure mediche «non essenziali» - tra cui quella abortiva – in tutte le cliniche, comprese quelle abortiste.

Un ordine esecutivo – peraltro ripreso da altri governatori repubblicani in Texas, Ohio e Alabama – che era stato motivato sulla base della necessità di assicurare i dispositivi di protezione individuale anzitutto al personale medico impegnato contro la pandemia, che negli Stati Uniti ha già mietuto quasi 800.000 contagi ed oltre 40.000 morti. Naturalmente, la disposizione del governatore Lee ha messo in allarme i colossi abortisti, a partire da Planned Parenthood, che con devono aver temuto per il loro mortifero business. Di qui la decisione di rivolgersi alla magistratura.

Il verdetto del giudice Friedman, da quanto è dato capire, ha annullato la sospensione degli aborti sulla base di due considerazioni, distinte anche se a loro modo complementari. In primo luogo, ha spiegato la corte, lo Stato non sarebbe riuscito a dimostrare che sospendere l’aborto avrebbe reso disponibile una «quantità apprezzabile» di dispositivi di protezione individuale; inoltre l’introduzione degli aborti è stata decisa perché «ritardare» tali interventi, secondo il giudice, potrebbe per la donna «comportare la perdita del diritto di abortire».

Ora, nell’auspicio che il governatore del Tennessee o chi per esso riesca a contestare e magari a ribaltare tale decisione, alcune brevi riflessioni possono comunque essere svolte sulle base di quanto questa vicenda già ci insegna. In primo luogo riguardo alla potenza di fuoco – mediatica ma purtroppo anche giurisprudenziale – di cui è capace il fronte abortista; per carità, nulla di nuovo sotto il sole dato che, fin dalla sentenza Roe contro Wade del 1973, l’abortismo militante ha nei giudici dei potenziali alleati; ma è comunque un salutare ancorché amaro promemoria.

In seconda battuta, quanto sta avvenendo in Tennessee – senza naturalmente nulla togliere, beninteso, alla lodevole iniziativa del suo governatore – ci insegna che una seria lotta all’aborto non potrà mai passare per vie secondarie. Non si può cioè sperare di porre fine a questo crimine ragionando sulla possibilità che vengano meno i presidi sanitari; o ricordando i rischi – che pure son assai consistenti, intendiamoci – per la salute materna. No, per essere combattuto l’aborto esige di essere denunciato per quello che è: la soppressione di un essere umano innocente e indifeso.

D’altra parte, che quella nel grembo materno sia a tutti gli effetti una vita umana non è da tempo questione che si possa più argomentare, dal momento che essa – come messo in luce dalle ricerche dello studioso Steven Jacobs, che ha sondato il parere di quasi 3.000 studiosi dell’argomento – è condivisa da almeno il 95% dei biologi. Ne consegue come l’aborto non possa, se la logica ha ancora un senso, che essere definito come pratica omicida. Sono parole dure? Certamente, lo sono. Ma l’aborto lo è ancora più e, soprattutto, solo così, solo richiamando la cruda realtà di un atto intrinsecamente antigiuridico e antitetico alla più elastica concezione di diritto naturale, possiamo sperare che, prima poi, ci sia un giudice a Berlino.

 

di Giuliano Guzzo

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