Se ne sente parlare con frequenza progressivamente crescente e quasi sempre, di fatto, dandola come una realtà acquisita se non elementare. Peccato, però, che la «carriera alias» sia una novità tutt’altro che pacifica e che, anzi, presenti numerosi elementi di criticità; prima però di vederli, urge una doverosa premessa di carattere definitorio. La «carriera alias» è un profilo alternativo e temporaneo, riservato agli studenti, e in alcuni casi pure ai docenti e al personale, che non si riconoscono nel genere «assegnato alla nascita» - come oggi si usa dire con riferimento al sesso biologico – e che, quindi, intendono vedersi riconosciuto un altro genere: quello percepito.
Già da tale definizione si evincono due elementi di particolare rilevanza. Il primo riguarda la validità di questa opzione, che viene limitata all’ambito scolastico; il secondo concerne il fatto che l’identità «alias» viene certificata, quasi sempre, dall’ente scuola in assenza – questo è un aspetto centrale – d’una qualsivoglia verifica medica. Il che significa che se Tizio si sente Gaia, ecco, da domani dovrà essere chiamato Gaia e guai a chi non si adegua, almeno tra i banchi, a questa sua nuova identità percepita. Sì, perché il fine di questo profilo è precisamente il contrasto al cosiddetto misgendering, ovvero all’uso di termini riferiti al sesso biologico anziché all’identità di genere.
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Ciò premesso, veniamo alle criticità della «carriera alias», che sono parecchie. Anzitutto sul piano già delle finalità che persegue e che, di fatto, non può perseguire in senso compiuto. Se infatti, come dicevamo, Tizio si percepisce come Gaia, con la «carriera alias» diventerà subito Gaia: ciò è vero ma solo a scuola. Invece in tutto ciò che riguarda la sua vita extrascolastica – nelle attività sportive, associative, ludiche e di ritrovo con gli amici – sarà concretissimo il rischio che Gaia sia riconosciuta ancora come Tizio, con ciò alimentando un senso di disagio che non verrebbe in questo modo arrestato ma perfino alimentato.
In seconda battuta, la «carriera alias» presenta rilievi di natura giuridica. Quasi sempre, infatti, le scuole che la introducono fanno leva sul D.p.r. 275/1999, recante la disciplina in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche. Il fatto è che, assenza di una normativa specifica, evocare tale norma appare alquanto parziale e arbitrario. Questo per un motivo semplice: l’articolo 4 del citato D.p.r. presuppone, quale componente finalistica della norma, il rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema. Quindi la pur rilevante autonomia scolastica non può essere tirata in ballo per l’adozione di provvedimenti che non trovino in una norma, ad oggi assente, il loro fondamento giuridico.
Come terzo punto, ci sono le conseguenze negative che la «carriera alias» potrebbe avere sui soggetti che decidono di avvalersene. Infatti, anche nell’ipotesi che – diversamente da quanto detto poc’anzi – tale profilo burocratico possa funzionare a meraviglia, esso altro non farebbe che agevolare l’iter di transizione, da parte di un minore, da un genere all’altro. Il che appare altamente problematico per un motivo semplice: spesso i giovani transgender, crescendo, cambiano idea e decidono perciò di tornare alla loro identità originaria, con tutte le dure criticità che esso comporta sotto il profilo chirurgico, ormonale e psicologico. Non si tratta di casi rarissimi, anzi: a livello internazionale risultano sempre più frequenti.
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Questo perché, come ha scritto recentemente lo studioso Marcus Evans sul British Journal of Psychotherapy, «la certezza del bambino nel voler fare la transizione è spesso presentata come un esempio di chiarezza di pensiero». «Tuttavia», segnala Evans sulla base della sua esperienza clinica, «l'assenza di dubbi e conflitti sul desiderio di transizione si basa su sogni ad occhi aperti. Gli interventi medici e chirurgici in soggetti con disforia di genere spesso lasciano completamente irrisolti i problemi emotivi o psicologici sottostanti. Questo approccio ignora la complessa relazione tra il quadro sintomatico manifesto e il trauma, le ansie sociali e persino la turbolenza relativamente normale dell'adolescenza».
Ecco che allora la «carriera alias» - anche sorvolando sui dilemmi etici, giuridici e familiari che pone - rischia davvero di rivelarsi un clamoroso boomerang proprio per quei giovani che, almeno in teoria, dovrebbe aiutare. Ciò nonostante, questa novità di matrice arcobaleno spopola sempre di più nella nostra Penisola. Ne abbiamo avuto infatti notizia al liceo Brotzu a Quartu Sant’Elena, in provincia di Cagliari, al liceo Paolina Secco Suardo di Bergamo, al liceo Scacchi di Bari e, più recentemente, al liceo artistico Nervi Severini di Ravenna. In tutto, si stima siano una dozzina gli istituti che hanno introdotto al loro interno questa novità, guardata con interesse anche in ambito universitario e non solo.
Il fatto è che, a maggior ragione quando di mezzo ci sono i giovani delle superiori – quindi adolescenti e, e cioè, soggetti per loro natura in continua evoluzione attraverso percorsi di crescita spesso vissuta in modo contraddittoria – la «carriera alias» deve essere guardata davvero con grande preoccupazione. Come abbiamo infatti visto, questa iniziativa, che pur nasce con finalità solidaristiche, nei fatti si rivela – o rischia di rivelarsi - tutt’altro, e cioè un grave errore. Da denunciare con forza finché si è ancora in tempo.
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