«Se posso essere un medico compassionevole e abile per quella persona, forse questo farà la differenza». Questo si chiedeva Sarah Prager, come leggiamo in un articolo di Life News, preoccupata del fatto che (com’è inevitabile che sia) l’aborto segna profondamente le donne. E come ha pensato di aiutarle a non sentirsi “marchiate” da questa scelta? In che modo è voluta diventare un “medico compassionevole”? Praticando aborti.
«Non sento che è il mio lavoro a far sentire “stigmatizzata” una persona», afferma la dottoressa. Quindi l’aborto sarebbe un atto di pietà? E verso chi? Verso il bambino innocente, a cui non viene data neanche la possibilità di nascere? Verso la donna in difficoltà, che, invece di essere aiutata a tenere il bambino (o, al massimo a darlo in adozione) viene lasciata sola e gettata in balia dei traumi post aborto?
Ecco i frutti della “compassione” dell’aborto: stroncare una vita innocente e ferire profondamente una donna, dopo averla illusa con falsi slogan. Ma al giorno d’oggi sono tanti i medici che si dicono “compassionevoli” nel favorire la morte delle persone. Pensiamo al caso della piccola Tafida, di cui abbiamo già parlato. I medici vorrebbero rimuoverle il supporto artificiale alla respirazione, in quanto, a detta loro, non ci sarebbe possibilità, per lei, di riprendersi dal coma.
E anche se fosse? Tafida è viva, rimuoverle la respirazione artificiale non è compassione, è omicidio, così come sono stati uccisi Charlie, Isaiah ed Alfie. E nonostante l’ospedale Gaslini di Genova si sia offerto per accogliere la bimba nella sua struttura, il Royal London Hospital sta tenendo Tafida prigioniera contro la volontà dei genitori.
Così, stranamente, negli ultimi tempi, tutto ciò che porta alla morte di qualcuno viene chiamato “compassione”. Ma ci vogliamo rendere conto che la vera compassione porta ad amare e a condividere le sofferenze di chi è in difficoltà, piuttosto che ad eliminare direttamente il sofferente?
Luca Scalise