Abbiamo intervistato il professor Pierluigi Strippoli in occasione del seminario che ha tenuto lo scorso febbraio per gli studenti del liceo scientifico di Pesaro (visibile QUI). Strippoli, che è professore associato del dipartimento di Medicina specialistica, diagnostica e sperimentale dell’Università di Bologna ed è un ricercatore che si ispira all’opera scientifica del grande genetista francese Jérôme Lejeune, ci ha parlato delle recentissime scoperte sulla trisomia 21 e di come la sua storia personale si sia intrecciata in maniera imprevedibile con quella dell’illustre predecessore, con una dinamica che lui stesso definisce “un ciclone”.
Dal mongolismo alla trisomia 21
Quando nel 1866 la sindrome di Down venne descritta per la prima volta dal medico britannico John Langdon Down, i tratti somatici caratteristici furono definiti come un fenotipo mongoloide. All’epoca vi erano delle teorie sull’evoluzione delle razze umane che consideravano la razza mongola molto primitiva mentre la razza bianca era, tra tutte, la più evoluta. Oggi tutte queste teorie sono state smentite dalle analisi filogenetiche del Dna che riconducono tutti gli individui della specie umana alla stessa discendenza, ovvero che i dati sono compatibili con la discendenza di tutti da un’unica coppia di individui. Ma allora tra gli scienziati era radicata la convinzione dell’esistenza delle razze umane e la nascita di un individuo con tratti “mongoloidi” era considerata una regressione. Inoltre i genitori di un figlio affetto da mongolismo venivano accusati di essere alcolisti, sifilitici, immorali; gli individui con sindrome di Down venivano pertanto allontanati dalla famiglia e chiusi negli istituti.
Nel 1959, la scoperta da parte del professor Jérôme Lejeune del cromosoma in più ha “scagionato” i genitori e le famiglie da ogni colpa: è un evento casuale, può capitare a chiunque e dunque non c’è alcuna responsabilità.
La sostituzione del termine “mongolismo” con “trisomia 21” in ambito medico è un passaggio significativo che ridà dignità agli individui e che libera le famiglie da un pesante pregiudizio. Si comprende la portata di questa liberazione ascoltando le parole di Bruno, un giovane con sindrome di Down che, al funerale di Jérôme Lejeune, nel 1994 nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi, si impossessa del microfono per dire: «Grazie, mio professore, per quello che hai fatto per me e per la mia famiglia; grazie a te io sono fiero di me». Bruno era proprio quel bambino osservando le cui cellule, 35 anni prima, era stata scoperta la trisomia 21.
Dottor Strippoli, chi era Jérôme Lejeune?
«Era un medico e uno scienziato di grande umanità e intelligenza. Vi racconterò alcuni aneddoti. Nel 1951 Lejeune si laurea in medicina e vuole entrare nella scuola di specializzazione di chirurgia; il giorno dell’esame di ammissione prende la metropolitana di Parigi nel senso opposto e non arriva in tempo per l’esame; dovrà rinunciare a chirurgia e ripiegare per la specializzazione in pediatria con il professor Turpin. Se Lejeune avesse fatto quello che voleva fare sarebbe sicuramente diventato un ottimo chirurgo, ma non avrebbe scoperto la trisomia 21. Da un fallimento dei nostri piani a volte nasce qualcosa di straordinario: un insegnamento importante per i futuri diplomandi e i giovani neolaureati! Quando era lontano da casa per lavoro, tutte le sere Lejeune scriveva alla moglie: la raccolta di queste lettere è la meravigliosa testimonianza della nascita della genetica umana. Ad esempio nel 1952 Lejeune scrive alla moglie che gli è stato proposto dal professor Turpin di lavorare sui bambini con mongolismo: doveva essere un lavoro di un paio d’anni e invece è diventata la missione della sua vita. “Io sono persuaso che c’è qualcosa che si può scoprire, che noi possiamo migliorare le vite di migliaia di esseri umani se riusciamo a capire perché sono così”. In questa frase di Lejeune troviamo tutto il metodo scientifico: un approccio positivo (la convinzione che c’è qualcosa da scoprire), la motivazione (il miglioramento delle condizioni di vita di tanti esseri umani) e la ricerca del rapporto causa-effetto (se riusciamo a capire perché). Con il senno di poi questa frase suona profetica: sette anni dopo sarà proprio lui a scoprire la causa della sindrome di Down. Il fatto che una malattia umana potesse avere una causa genetica era un’idea rivoluzionaria per l’epoca; lui è stato il primo a sostenerla contro lo scetticismo dei colleghi. Da questi aneddoti, da queste sue frasi, si intuisce la grandezza di Jérôme Lejeune: non solo un medico attento e capace, ma anche uno scienziato dotato di una mirabile intelligenza. Vi racconto una storia per capire qual era l’approccio di Lejeune ai pazienti. Una famiglia con un bambino con sindrome di Down va a Roma da un famoso pediatra che per cinque minuti di visita chiede 300.000 lire per sentirsi dire non c’è niente da fare. Vengono a conoscenza di Lejeune e partono per Parigi. Lejeune visita il bambino sulle ginocchia della madre (faceva sempre così); una visita approfondita che dura più di un’ora e che mette in evidenza non solo le problematiche, ma anche i punti di forza e si conclude con tanti consigli utili. I genitori sono veramente rincuorati, ma anche un po’ preoccupati: se l’altro dottore ha chiesto 300.000 lire per cinque minuti, questo per un’ora… Si fanno coraggio e quando chiedono di pagare la visita Lejeune risponde: “Sono 19 franchi e sono orgoglioso e onorato che abbiate fatto tutta questa strada per venire qui da me”».
Normalità e patologia: qual è il limite?
«All’interno del nostro genoma c’è un software che è la molecola di Dna impacchettata nei cromosomi. Basta l’errore di una lettera, ad esempio CTG invece di CAG, per determinare l’insorgenza dell’anemia falciforme; basta la mutazione di un singolo gene per determinare l’inversione nella disposizione di tutti gli organi interni da destra a sinistra; l’errore nella distribuzione del cromosoma 21 durante la meiosi (la sequenza di divisioni che porta alla produzione dei gameti) determina la trisomia 21. In realtà oggi si sa che l’errore nella distribuzione dei cromosomi può avvenire anche durante una semplice mitosi e dare così origine al fenomeno del mosaicismo (un individuo può avere la trisomia 21 in alcune cellule del proprio corpo senza manifestare i sintomi della sindrome di Down). Questo fenomeno, oltre a porre un problema in termini di diagnosi, ci mette di fronte a un interrogativo ancora più grande: qual è il confine tra la normalità e la patologia? A livello genetico siamo tutti dei mosaici con una parte di cellule trisomiche: è lecito stabilire una percentuale al di sopra della quale è diagnosticabile o meno la malattia? Lejeune si poneva già il problema negli anni Settanta, ma la conferma arriva nel 2005 con l’articolo di un gruppo di neuroscienziati californiani che rileva la trisomia 21 in almeno il 2% dei neuroni cerebrali delle persone normali (non affette da sindrome di Down). Questo significa che siamo tutti trisomici! La manifestazione della patologia è solo un problema di percentuale».
Quali sono i problemi per gli individui che nascono con la sindrome di Down?
«I problemi principali di una persona con sindrome di Down sono la cardiopatia e la disabilità intellettiva. Le altre caratteristiche (l’allargamento tra il primo e secondo dito del piede, gli occhi a mandorla, la radice un po’ infossata del naso e la tendenza a tenere la lingua che protrude) non sono clinicamente rilevanti, ma ai nostri occhi costituiscono un preconcetto: noi, rilevando questi elementi, pensiamo di avere un bambino con dei problemi, quindi ci comportiamo di conseguenza (ad esempio in ambito scolastico gli spieghiamo di meno) e lui sarà confermato nella nostra profezia negativa. Non è vero che i bambini con sindrome di Down sono tutti uguali: conoscendoli si vede subito la somiglianza ai loro genitori, che è prevalente rispetto alle caratteristiche somatiche date dalla trisomia. È importante sottolineare che l’aspetto di queste persone non costituisce un problema: loro soffrono solo di una cardiopatia (che è operabile) e di una disabilità intellettiva così che l’intelligenza rimane equivalente a quella di un bambino di otto-dodici anni. È la più frequente causa di disabilità intellettiva nella specie umana: ogni 700 bambini nati vivi, uno ha la sindrome di Down, ovunque, in qualsiasi luogo della terra, non si può fare nulla per prevenirlo. L’età materna è un fattore che può influenzare la probabilità: con l’aumento dell’età materna la probabilità può arrivare a uno su 100 nati vivi; tuttavia l’età della madre non è la causa della trisomia, che rimane comunque un evento casuale».
Come si manifesta la disabilità intellettiva?
«Consiste in difficoltà nell’espressione verbale e nella capacità di astrazione, che poi sono le uniche facoltà che ha solo l’uomo, quindi l’intelligenza umana viene colpita nella sua forma più elevata. Però in queste persone ci sono dei punti di forza: “Questi bambini sono capaci di suscitare intorno a sé un clima di intensità affettiva più grande del normale”. A volte si banalizza dicendo “sono così buoni, così affettuosi”, ma è anche possibile che non lo siano. È una cosa più sottile: rendono più buoni coloro a cui stanno intorno e, in più, hanno una forte capacità di socializzare. Ci è capitato che alcuni genitori contestassero la nostra ricerca: “Perché li volete curare? Loro sono meravigliosi così come sono”. Io sono rimasto colpito da questa domanda, ma poi mi sono dato una risposta: li dobbiamo curare perché loro sentono il limite di non poter fare tutto quello che facciamo noi e la medicina ha il sacrosanto dovere di togliere un limite biologico, se c’è. Lejeune aveva questo slogan: “Odia la malattia, ama il paziente: questa è la pratica medica”. Oggi, siccome noi odiamo la malattia, pur di non vederla eliminiamo il malato, non lo facciamo nemmeno nascere. Oppure, al contrario, siccome amiamo il paziente, amiamo la malattia. Anche in questo caso è stato Lejeune a indicarmi la strada. Lui riusciva mirabilmente a coniugare la professione medica e il lavoro di ricerca: la mattina in ospedale visitava i bambini e il pomeriggio in laboratorio cercava una cura».
Come reagiscono le famiglie quando apprendono la diagnosi?
«Curiosamente ho ritrovato le stesse cose che Lejeune diceva ai genitori di bambini con sindrome di Down in una intervista alla top model americana Amanda Booth, la quale ha scoperto la diagnosi quando il figlio aveva quattro mesi: “Ho tonnellate di consigli per le madri di bambini con sindrome di Down. Innanzitutto che va bene essere tristi o preoccupate e piangere per la perdita della vita che si era immaginata per te e per il tuo bambino. Sarà una cosa diversa, va bene, ma questo non significa che sarà un di meno, in nessun modo”. Mi ha colpito molto perché ho visto tante famiglie in questi anni e vi assicuro che, qualunque sia la religione o l’estrazione sociale, ho sentito dire sempre le stesse frasi: “Abbiamo passato i primi due mesi a piangere quando abbiamo saputo la diagnosi, ma poi il bambino è cresciuto e lo abbiamo conosciuto meglio e oggi non faremmo a cambio con uno normale; ha reso più unita e allegra la nostra famiglia. Ci ha riportato all’essenziale della vita. I fratelli stanno già litigando per chi lo dovrà tenere dopo di noi”. Questo è testimoniato da tante altre famiglie. Il momento della comunicazione della diagnosi è cruciale, alcuni medici lo fanno in un modo devastante tirando quasi il referto addosso al paziente, scappando, perché non sanno stare di fronte a questa notizia, ma ovviamente Lejeune non faceva così. Voleva che ci fossero entrambi i genitori, chiamava il bambino per nome, evidenziandone i punti di forza».
Come ha scelto di fare ricerca sulla trisomia 21?
«Io mi sono laureato in medicina nel 1990 a Bologna. Ho sempre fatto ricerche su altre malattie. Nel 1998, essendo diventato un ricercatore, dovevo insegnare anche genetica alle matricole di Medicina. La mia professoressa di genetica, la professoressa Zanotti, aveva questa curiosa coincidenza: era stata allieva di Lejeune. Lei mi ha proposto: “Ma perché non lavori con me sulla trisomia?”. Risposi: “Non ci penso neanche, è la malattia genetica più frequente in tutto il mondo, siamo quattro gatti con quattro soldi, non abbiamo gli strumenti per farlo”. E lei ha messo un dito a caso sulla mappa del cromosoma 21 e mi ha detto: “Ma dai, per esempio, studiamo questo gene!”. Io, per chiudere la questione, ho detto: “Senta, professoressa, andiamo al computer e le dimostro che ci saranno già 400 articoli su questo gene e lasciamo perdere”. Ma al computer scopro che c’era un solo articolo. Mi sono reso conto in quel momento che nessuno faceva più ricerca sul cromosoma 21 perché si era deciso che la ricerca doveva andare verso l’identificazione precoce dei feti con sindrome di Down per impedirne la nascita. Quindi, dal punto di vista del ricercatore, se la patologia può essere evitata, il problema è risolto e la ricerca di una cura viene abbandonata. A quasi nessuno interessa più capire come funziona il cromosoma 21. Allora abbiamo fatto un gruppo di ricerca, la collega Lorenza Vitale ha scoperto uno dei geni sul cromosoma 21, abbiamo avuto anche delle soddisfazioni, però nel 2011 era già tutto finito: eravamo senza soldi, il laboratorio stava per chiudere, io ero assolutamente demotivato e mi stavo già orientando verso la bioinformatica. È allora che è successo quello che io chiamo “il ciclone”. In qualche modo anche a me è successo un piccolo imprevisto che mi ha messo sulla strada giusta. Semplicemente ho dato un passaggio a un collega oncologo canadese di passaggio a Bologna, chiacchierando mi chiede cosa studiavo, io rispondo che facevo ricerca sul cromosoma 21, ma che stavamo chiudendo il laboratorio. Allora lui ha fatto un salto e mi ha detto che dovevo assolutamente andare a Parigi perché da lì a due settimane ci sarebbe stato un grande congresso in memoria di Lejeune a cui avrebbe partecipato una ricercatrice italo-americana, Ombretta Salvucci, amica della famiglia Lejeune, e che io dovevo andarci assolutamente. Ovviamente ho risposto di nuovo “non ci penso neanche”, per una ragione molto semplice: non sono una persona che ama viaggiare, io sto bene dove sto. Però lui era troppo entusiasta e questa faccenda non mi ha lasciato tranquillo. Alla fine ho preso un aereo che mi ha cambiato tutto. Ho conosciuto la storia che vi sto raccontando, ho conosciuto le idee di Jérôme Lejeune, ho letto le sue lettere e ho capito che lui era a un passo dal trovare la cura. Ma al congresso ho capito anche che nessuno seguiva più le sue idee. Lejeune era convinto che la trisomia fosse una malattia metabolica, cioè che il cromosoma 21 sovrannumerario rallentasse in qualche modo le reazioni cellulari danneggiando i neuroni e l’intelligenza, quindi abbiamo rilanciato la ricerca partendo dal deficit metabolico».
Come procede la vostra ricerca oggi?
«Credo che la cosa più importante sia descrivere molto brevemente gli aspetti di metodo della ricerca e successivamente le scoperte che abbiamo fatto e come pensiamo di poter curare i bambini. Il primo aspetto è avere una ipotesi positiva dell’esistenza di una soluzione. Se non pensi che una cosa possa essere trovata non la troverai mai. Del resto Lejeune diceva: “Hanno salvato i malati dalle malattie infettive i Pasteur che hanno scoperto i batteri e i virus, non quelli che bruciavano le case degli appestati”. Il secondo aspetto è lo studio sistematico dell’aspetto biologico. Vi è una foto con un disegno di Lejeune che lui non ha mai pubblicato in un articolo scientifico. Si chiama “macchina di Lejeune”. Tutta la biochimica umana è rappresentata come un gigantesco motore, in cui ogni ingranaggio è una sostanza chimica e ogni enzima è una cinghia che trasforma una sostanza nell’altra. Dobbiamo capire dove è inceppato il motore chimico in questi bambini. Il terzo aspetto consiste nell’osservare la mappa cromosomica. Il cromosoma è una lunga molecola di Dna. Un gene è una porzione di Dna che può essere tradotta in proteina. Il cromosoma 21 contiene 250 geni. Se basta un gene sbagliato per avere una grave malattia genetica, come fa il bambino a sopravvivere con 250 geni in più? Il ragionamento è semplicissimo: vuol dire che la maggior parte di questi geni sono innocui anche se presenti in tre copie. Dobbiamo capire quali di questi geni causano la sindrome di Down. È come avere tanti sospetti e dover trovare i colpevoli. Lejeune diceva: “Ma come faremo a scoprire il colpevole in mezzo a tanti geni innocenti?”. Oppure: “Come faremo a scoprire l’unico strumento in una grande orchestra che sta sbagliando e che da solo rovina la musica?”. Il quarto aspetto è vedere i bambini. Io non avevo mai visto un bambino con sindrome di Down anche se facevo ricerca sul cromosoma 21. L’ultimo giorno del congresso la moglie di Lejeune, Madame Birthe, mi chiese: “Tu cosa fai?”. Io, emozionatissimo, risposi: “Lavoro sul cromosoma 21”. E lei mi liquidò in quattro parole: “Tu devi vedere i bambini”. Ero un po’ imbarazzato perché non ero mai stato un clinico, però sono tornato in ospedale e ho seguito le visite. Vedendo i bambini ho capito il perché di quelle parole: si vede proprio che hanno una ricchezza enorme, ma c’è un blocco che impedisce loro di esprimere il proprio potenziale. Una volta un padre mi ha descritto il comportamento di suo figlio di tre anni con la sindrome di Down. Questo bambino si metteva a piangere ogni volta che sentiva le canzoni dello Zecchino d'Oro. Lui pensava di essere un padre sfortunato perché suo figlio non solo aveva la trisomia 21, ma era anche l’unico bambino a cui non piaceva la musica. Il bambino non riusciva a parlare, ma osservava sempre i gesti del padre. Un giorno col dito gli ha fatto segno sul tasto “eject”, poi è andato al suo scaffale dei dischi e ha indicato tutti i cd di Bruce Springsteen e dei Queen. A lui piaceva il rock e si arrabbiava se gli facevano sentire lo Zecchino d’Oro. Musicalmente era almeno dieci anni avanti! Raccontando questo aneddoto in diverse occasioni ho scoperto che la passione per la musica è un fattore ricorrente. Forse c’è qualche gene per il rock sul cromosoma 21!».
A che punto è la “ricerca del colpevole”?
«Vi dico quali sono state le nostre due scoperte sperimentali e come pensiamo di proporre una cura. La prima scoperta è genetica. Abbiamo studiato dei bambini con trisomia 21 parziale, sono pochissimi in tutto il mondo e hanno solo un pezzo del terzo cromosoma. Se un bambino con la sindrome di Down ha solo un pezzo del cromosoma, significa che in quel pezzo ci sono i geni colpevoli. Viceversa, sono stati trovati altri pezzi del cromosoma 21 in bambini che non manifestano la sindrome: evidentemente in quei pezzi sono contenuti i geni innocenti. Dopo due anni di lavoro abbiamo scoperto che, in effetti, solo una parte piccolissima del cromosoma (circa un millesimo) è sempre presente in tre copie in chi ha la sindrome di Down ed è sempre solo in due copie in chi non la manifesta. Quindi abbiamo identificato una zona molto circoscritta dove cercare i colpevoli. La seconda scoperta è biochimica. Abbiamo scoperto che nel plasma e nelle urine dei bambini con la sindrome c’è un metabolismo anomalo. Aveva ragione Lejeune: il cromosoma interferisce con la biochimica del corpo. Abbiamo riportato i nostri risultati sulla macchina di Lejeune: abbiamo colorato gli ingranaggi a seconda della quantità di sostanza che abbiamo trovato e stiamo cercando di capire dov’è il blocco principale. Noi siamo convinti che il blocco abbia a che fare con il ciclo dell’acido folico, una vitamina fondamentale per lo sviluppo del cervello. Tra queste sostanze chimiche, quella più nettamente alterata è un tipo particolare di acido folico: il tetraidrofolato, che viene ricostituito a partire dal metil-tetraidrofolato. Questa sostanza non solo viene prodotta in quantità minore negli individui con la sindrome, ma risulta ridotta a due terzi, cioè in quantità inversamente proporzionale al numero di cromosomi».
Ma come fa una sola vitamina a cambiare l’intelligenza?
«Lo spiego con un paragone: l’espressione dell’uomo è come una musica dove è necessario un pianista e un pianoforte ben accordato. Faccio notare che queste due cose sono completamente indipendenti: il pianista non sarà mai un pianoforte e un pianoforte non suonerà mai da solo; se non ci sono entrambi questi fattori la musica non c’è, se il pianoforte è scordato il musicista non potrà documentare la sua arte. Questo vale anche per l’intelligenza umana. La personalità, per esprimersi, deve avere uno “strumento” neurologico “accordato” nelle sue componenti chimiche. Immediatamente questo ha fatto sorgere l’idea di una cura che preveda la somministrazione di metil-tetraidrofolato. Questa sarà la direzione in cui intendiamo proseguire con la fase di sperimentazione. Concludo con due frasi di Lejeune. Egli morendo ha detto: “Sono stato il medico che doveva guarirli e ora me ne vado, ho l'impressione di abbandonarli”. E sulla malattia diceva: “Eppure deve esserci una cura! La troveremo, è impossibile che non riusciamo a trovarla, è un'impresa intellettuale meno difficile che spedire un uomo sulla Luna. Se trovo come guarire la trisomia 21 allora si aprirà la strada per la guarigione di tutte le malattie di origine genetica”. Siamo onorati di poter cercare di sviluppare le sue idee e cerchiamo con tutte le forze di seguire il percorso da lui tracciato».
a cura di Luca Pierantoni, già pubblicato sulla Rivista Notizie Pro Vita & Famiglia n. 129 di maggio 2024