L’istruzione domestica, la scuola a casa: concetti che nel nostro Stato riportano la mente a contesti nobiliari o alto borghesi dei secoli passati in cui l’educazione e la crescita della prole veniva curata da precettori scelti dalla famiglia.
Ma il progetto di home schooling non è così insolito in molte parti del mondo e si sta diffondendo anche in Italia. I difensori di quest’approccio ricordano come, anche da noi, non è obbligatorio mandare a scuola i propri figli, ma fornire loro un’istruzione. Cosa ben diversa.
Le motivazioni che possono portare dei genitori ad intraprendere questo particolare progetto formativo sono molteplici, ma principalmente si basano su questioni di ordine etico e valoriale: laddove l’istituzione scolastica su questo piano non rispetta più il primato educativo dei genitori, sancito anche nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, una reazione può e deve considerarsi dovuta.
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“A essere obbligatoria è l’istruzione, non la scuola“. È questo lo slogan delle mamme che ogni anno in Italia scelgono di non mandare i loro figli a scuola come gli altri, ma di educarli a casa, facendo da sé e stabilendo cosa vale la pena sapere e cosa no.
Difficile sapere quante siano (secondo stime ufficiose poco meno di un migliaio, secondo il ministero poco più di un centinaio) e difficile sapere, in mancanza di precedenti apprezzabili, per tempo e quantità, quali siano i risultati della ‘scuola a casa‘. Eppure l’esperimento di anno in anno cresce.
“Le ragioni per cui preferire far da soli e dire no alla scuola tradizionale possono essere molte e tutte diverse: a partire dalle convinzioni delle singole famiglie, fino ad arrivare alle esigenze della famiglia che magari si sposta per lavoro. O a quelle del bambino che può essere, per esempio, plusdotato o impegnato con lo sport a livello agonistico, oppure può avere problemi di salute”. A spiegarlo è Erika De Martino, che madre di quattro figli di cui è anche insegnate, negli anni è diventata punto di riferimento della comunità della scuola fai da te, animando il sito controscuola.it e organizzando incontri e conferenze in cui spiega come e perché istruzione e scuola non necessariamente coincidono.
“La scelta di educare i figli per conto proprio viene percepita come ‘strana’ in Italia, ma in altri paesi del mondo è considerata normale, ove non auspicabile: basti pensare che negli Stati Uniti sono circa 2 milioni le famiglie che educano i figli a casa e che, nella più vicina Inghilterra, si stima siano circa 70mila”.
E lo Stato cosa dice? Poco, in realtà. Perché la legge, che certo non incoraggia a far da sé, in realtà nemmeno ostacola chi a scuola non ci vuole o può andare.
“La Costituzione assicura la libertà di istruzione, che si può raggiungere anche non servendosi necessariamente delle scuole pubbliche o paritarie, dunque la scelta di educazione parentale o di educazione privata non paritaria è comunque un’opzione praticabile” spiega il Direttore Generale per gli Ordinamenti scolastici del Miur, Carmela Palumbo “Certo il ministero si premura di verificare che chi decide di seguire questa strada abbia i requisiti adatti a farlo e, ovviamente che i bambini siano effettivamente seguiti. Chi vuole poi ottenere un qualsiasi attestato, sia quello di terza media sia quello di stato o di termine dell’obbligo scolastico, deve sostenere un esame. Lo stesso dicasi per chi, come spesso accade da un certo punto in poi, desidera rientrare nel regime scolastico e per potervi accedere è tenuto a un esame di idoneità”.
In buona sostanza questo è tutto. Nessuna legge, poi, nello specifico, obbliga a sostenere esami periodici o a essere valutati sulla base di competenze e nozioni apprese. “Nessuno” continua Erika De Martino mamma e insegnante a tempo pieno “mi può obbligare a insegnare a leggere a scrivere ai miei figli quando hanno tra i 6 e i 7 anni o a fargli fare le tabelline tra i 7 e gli 8: l’unica cosa che possono chiedermi, e che mi chiedono, è di rinnovare ogni anno la richiesta di provvedere a casa all’educazione dei miei figli e di portare un portfolio delle cose fatte, per essere certi che l’homeschooling non sia solo un modo per mascherare la dispersione scolastica. Ma questo è tutto”.
Dunque, nessuna verifica, nessun esame periodico, nessun controllo e mano libera a estro, preferenze, persino convinzioni di famiglie e tutori e nessun vincolo con i programmi ministeriali. “Chi vuole, può provvedere da sé a insegnare ai propri figli le cose che ritiene importanti: i miei bambini, per esempio, che hanno tutti meno di dieci anni sono perfettamente bilingui con l’inglese, anche se forse non sanno le cose di storia che sanno i loro coetanei, come, per fare un esempio, chi sia e cosa abbia fatto Giuseppe Garibaldi”.
Una lacuna, quella sull’Eroe dei due mondi, che non preoccupa più di tanto la mamma insegnante: “Al di là del fatto che lo sappiano o meno, siamo sicuri che nel mondo di oggi, così globalizzato e mutevole abbia davvero importanza avere nozioni di storia che tra l’altro valgono solo in Italia? Siamo sicuri che non sia preferibile acquisire la capacità di muoversi per il mondo con curiosità, interesse e con gli strumenti per capire le cose? Se si considerano queste ultime come uniche imprescindibili basi, allora anche il resto, le cose da studiare, quelle che richiede il Ministero nei suoi programmi, si imparano con facilità e gli esami richiesti, di volta in volta e solo per chi vuole, alla fine dei vari cicli scolastici si imparano facilmente”.
Così anche se è vero che gli esami non finiscono mai, a un certo punto, anche per chi a scuola non ci ha mai messo piede, devono pur cominciare e il caro vecchio ‘pezzo di carta’ serve sempre. E se è fatto in casa non vale.
Luciana Grosso
Fonte: Espresso