Morì piuttosto giovane e oggi – se fosse viva – avrebbe 76 anni e tantissimo da dire sulla realtà antropologica che cambia. Andrea Dworkin (1946-2005) è un nome che forse dice poco alle femministe dell’ultima generazione. Probabilmente perché la sua figura è stata marginalizzata e la sua opera ricacciata nell’oblio, come avviene per tutti gli intellettuali scomodi.
Dworkin era nata e cresciuta nel New Jersey, da famiglia di religione ebraica. Un turpe episodio di molestie sessuali subito a soli nove anni sconvolse in modo irreversibile la sua vita, distorcendo profondamente il suo approccio all’affettività e all’altro sesso. Gli abusi e le violenze subite da parte degli uomini furono una variabile tragicamente ricorrente nella vita di Andrea Dworkin: capitò nel 1965, durante una delle prime manifestazioni contro la guerra in Vietnam, quando venne aggredita sessualmente da un poliziotto, poi, qualche anno dopo, durante il suo unico e sfortunato matrimonio con un uomo particolarmente violento, che la costrinse a scappare di casa, a vivere per qualche tempo senza fissa dimora e persino a prostituirsi.
Esperienze così traumatiche, spinsero Dworkin ad aderire al femminismo radicale negli anni ’70, pubblicando almeno una dozzina di saggi, i più noti dei quali sono Pornography. Men Possessing Women (1981) e Intercourse (1987). Lei stessa, però, ebbe grossa difficoltà nel farsi comprendere e accogliere dal femminismo mainstream, politicamente corretto e incline a opportunismi, incoerenze e compromessi col potere. Tratto comune tra il pensiero di Dworkin e il femminismo della prima generazione è la promozione del diritto all’aborto e alla contraccezione. Il punto di divergenza è nel mito della liberazione sessuale, che la saggista americana non condivideva in toto.
Al fondo della radicalità femminista di Dworkin, c’è, almeno apparentemente, un’avversione viscerale per il sesso maschile. «Il potere esercitato dagli uomini, giorno per giorno, nella vita è un potere istituzionalizzato – disse una volta nel 1983 –. È protetto dalla legge. È protetto dalla religione e dalla pratica religiosa. È protetta dalle università, roccaforti della supremazia maschile. È protetto da una forza di polizia. È protetto da coloro che Shelley chiamava “i non riconosciuti legislatori del mondo”: i poeti, gli artisti. Contro quel potere, abbiamo il silenzio». Arrivò persino ad affermare che le donne erano l’unica categoria umana che «condivide il letto con il proprio oppressore». Dworkin, tuttavia, non gradiva essere tacciata di misandria, al punto che un giorno volle puntualizzare: «Non siamo femministe perché odiamo gli uomini; siamo femministe perché crediamo nella loro umanità, nonostante tutte le prove contrarie».
Taluni, con un pizzico di superficialità, attribuivano l’avversione di Dworkin per gli uomini alla sua scarsa avvenenza (era notevolmente sovrappeso). Le esperienze traumatiche da lei vissute offrono sicuramente una chiave di lettura migliore, in ogni caso, l’aspetto davvero interessante – ed oggi decisamente demodé – è la sua avversione per la pornografia. Nel 1983, Dworkin, assieme alla giurista Catherine MacKinnon, presentò un’ordinanza sui diritti civili contro le pratiche pornografiche che avrebbe concesso a coloro che erano stati direttamente danneggiati dalla pornografia il diritto di ricorso civile, consentendo alle vittime di citare in giudizio i produttori di pornografia e distributori. L’ispirazione per l’approccio è stata Linda Lovelace, la star di Gola profonda, che aveva annunciato di essere stata costretta a girare il film e violentata durante la sua produzione.
L’ordinanza Dworkin-MacKinnon non venne mai accolta ma, in un certo senso, fece scuola. In modo piuttosto lucido, Dworkin coglieva il nesso tra pornografia e violenza sessuale. L’oppressione dell’uomo sulla donna, del resto, si manifesta in tante forme di pornografia blanda e diffusa, dalle immagini provocanti di certe campagne pubblicitarie di moda al successo di siti come Onlyfans: tutti fenomeni che facevano o avrebbero fatto inorridire Andrea Dworkin. Quest’ultima, del resto, odiava persino l’idea dell’estetica femminile moderna: «Depilarsi le sopracciglia, radersi sotto le ascelle... imparare a camminare con scarpe col tacco alto – scrive in Woman Hating – avere il naso aggiustato, raddrizzarsi o arricciare i capelli - queste cose fanno male. Il dolore, ovviamente, insegna una lezione importante: nessun prezzo è troppo alto, nessun processo troppo repellente, nessuna operazione troppo dolorosa per la donna che vorrebbe essere bella».
L’attualità di una figura come Andrea Dworkin sta proprio nell’aver intuito che il corrotto femminismo mainstream non avrebbe certo aiutato a porre un freno alla violenza sulle donne. Lei stessa, poco prima di morire affermò che, in tal senso, le cose sarebbero andate ulteriormente peggiorando, poi, toccato il fondo, il movimento femminista radicale avrebbe ripreso vigore ed efficacia. Ebbene, gli episodi di cronaca che arrivano in queste settimane dall’Italia e da molti altri Paesi occidentali non fanno altro che dare una conferma alle premonizioni della femminista radicale americana. Ovviamente gran parte del pensiero di Dworkin non è eticamente condivisibile. Le va riconosciuto, comunque – pur nel fortissimo condizionamento del proprio vissuto personale – di aver colto alcune clamorose contraddizioni nel movimento femminista che, ormai, dovrebbero essere evidenti a tutti. Viviamo, però, un tempo di oblio della ragione, che impedisce all’uomo medio di guardare oltre il proprio naso.