Lo scorso 21 novembre al parlamento della Repubblica Ceca si è tenuto un incontro di grande interesse, voluto da tre deputate, sulla maternità surrogata, più nota, per noi che amiamo chiamare le cose con il loro vero nome, come utero in affitto. In quell’occasione l’esperta legale Aude Mirkovic non ha esitato a parlare della pratica come di qualcosa di dannoso per l’individuo, impattando essa sugli equilibri e i diritti del soggetto fin da quando è bambino. L’utero in affitto, secondo la Mirkovic, «lede la dignità del minore, nel momento in cui viene “ordinato” e poi consegnato come un oggetto qualunque». La rottura dei suoi diritti avviene da subito, secondo l’esperta, già quando viene strappato al processo di filiazione materna, poi condiviso con altre donne, quando non spesso da un uomo o coppie di uomini.
Non ci sono quadri legali, secondo la Mirkovic, che possano rendere la maternità surrogata accettabile per il semplice motivo che la pratica manda in pezzi i diritti del bambino. In questo senso è importante, oggi, proteggere e assistere chi ha subito quella pratica, un numero di persone che incomincia a crescere e che comincia a contare nel proprio novero anche persone ormai adulte, in grado di raccontare la propria esperienza di vita. Mirkovic però è convinta che, a fianco dell’assistenza a costoro, si debba combattere a monte la pratica, per evitare di porre al mondo individui già “rotti” al proprio interno fin dalla più tenera età.
Le fa eco Bernard Garcia, coordinatore della “Dichiarazione di Casablanca”, un documento firmato nel marzo del 2023 da 100 esperti di 75 nazionalità diverse dove si richiamano i paesi a prendere iniziative per combattere la maternità surrogata sul loro territorio e a impegnarsi per un’abolizione della pratica sul piano internazionale. Un obiettivo ambizioso, conforme alla diffusione sempre più ampia del fenomeno, con un “mercato” fiorente, capace di scavalcare divieti e proibizioni attraverso i viaggi all’estero verso le cliniche o le organizzazioni autorizzate. Il problema è globale, secondo Garcia, e richiede una risposta globale. E non è nemmeno necessario inventarsi nuove leggi o direttive: quelle già esistenti, a livello internazionale, se correttamente interpretate, potrebbero già impedire il diffondersi del fenomeno. L’unica cosa che manca è un loro riordino, magari all’interno di un trattato internazionale apposito. Anche per promuovere questo è nata la Dichiarazione di Casablanca: la maternità surrogata è intrinsecamente contraria alla dignità umana e ai diritti umani, per questo è necessario un quadro legale ampio e riconosciuto per combatterla.
Ma alla fine, a parlare fino a questo momento sono stati esperti o attivisti “esterni” al fenomeno. Le loro dichiarazioni sono impegnative e pesanti, parlano di sofferenze, strappi, rotture come caratteristiche inerenti alla maternità surrogata. Ma loro che ne sanno, di fatto? Non sarà che parlano e operano per partito preso o per un’ideologia di qualche tipo? Niente affatto. Lo si è detto, i nati da maternità surrogata cominciano ad avere l’età della ragione e ragionevolmente parlano, si esprimono e raccontano. Per questo al parlamento ceco è stata invitata a parlare anche Olivia Maurel. Nata negli USA con maternità surrogata da genitori francesi, ha raccontato la propria storia e come abbia sempre sofferto per la ferita da abbandono causata dalla separazione dalla propria madre naturale. «La maternità surrogata è sempre dannosa», ha dichiarato, «anche quando la procedura “va bene” nei termini secondo i quali viene definita “buona” una maternità surrogata». Così, ad esempio, sono considerate le pratiche attuate negli USA e in presenza di genitori coscienziosi e desiderosi di garantire alla figlia l’istruzione, l’educazione, il mantenimento e un clima sereno.
Olivia è una di queste “storie di successo” della maternità surrogata, espressione che però sa tanto di ipocrita. «Per tutta la vita ho sofferto di ansia e depressione, con conseguenti dipendenze, a causa proprio di quell’abbandono. Un peso che ora vedo sta passando alla generazione successiva, quella dei miei figli». Il suo messaggio ai membri del parlamento è dunque chiaro: al di là delle formule di comodo, non esiste una maternità surrogata “buona” e non esiste una giustificazione accettabile alla separazione coatta di un bambino dalla propria madre. Non c’entra che la madre sia geneticamente collegata al bambino, il quale di suo non ha la capacità di comprendere legami di questo tipo: c’entra invece che la donna che l’ha portato in grembo è l’unico soggetto che egli conosce. «La separazione lo lascia con un incolmabile vuoto interiore che i genitori adottivi, pur con tutta la buona volontà e l’amore, non sono in grado di colmare», conclude Olivia. Nella sua viva voce e nella sua esperienza diretta, che si aggiunge alle molte raccolte nel corso del tempo, si solidifica il rigetto che una comunità umana degna di se stessa deve avere per l’utero in affitto.