Dieci anni fa, il 15 settembre 2006, moriva la grande giornalista e scrittrice Oriana Fallaci.
In un’intervista del 1993, quando già lottava contro il cancro, ebbe a ribadire quello che ha sempre pensato e scritto, fino agli ultimi giorni della sua esistenza: «Ho sempre amato disperatamente la vita, anche nei momenti più neri di disperazione e di dolore più cupo, io sono sempre stata contenta di essere nata, ho sempre pensato che la vita è bella anche se brutta». «Ma ora [dopo il cancro NdR] sono ancora più contenta d’essere nata, sono ancora più convinta che la vita sia bella anche quando è brutta e quando mi succede qualcosa di buono mi prende una specie di gratitudine pazza».
Coerentemente con questo amore sconfinato per la vita, Oriana Fallaci, atea, laica e anticlericale, ha contrastato la “cultura della morte” dell’aborto, della fecondazione artificiale, dell’eutanasia e dell’ideologia LGBT. Lo abbiamo più volte ricordato e qui, per commemorare la morte della giornalista, sintetizziamo alcuni punti.
In Lettera a un bambino mai nato iniziò così: «Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi». La Fallaci, che aveva studiato medicina, sapeva che sin dal concepimento siamo di fronte ad un essere umano. Vedendo la fotografia di un embrione a tre settimane, si rese ben conto che sì, si tratta di un esserino minuscolo, ma ha già cuore, testa, bocca, occhi, stomaco, sistema nervoso, fegato. Per questo, a molti anni di distanza e già vicina alla morte, nel 2005 si scagliò contro la fecondazione artificiale, attraverso cui vengono uccisi senza pietà migliaia di embrioni, ovvero persone. L’articolo in questione, “Noi cannibali e i figli di Medea”, è tutto da leggere.
E se la vita è sacra all’inizio, lo è pure alla fine dell’esistenza. Quando nel 2005 negli Stati Uniti venne uccisa Terry Schiavo, la donna in stato vegetativo cui vennero tolti alimentazione e idratazione (sarebbe successo lo stesso in Italia con Eluana Englaro, nel 2009), la Fallaci, con la libertà che la contraddistingueva, denunciò l’omicidio e si oppose fermamente all’eutanasia: «La parola eutanasia è per me una parolaccia. Una bestemmia nonché una bestialità, un masochismo. Io non ci credo alla buona-Morte, alla dolce-Morte, alla Morte-che-Libera-dalle-Sofferenze. La Morte è morte e basta». E ancora: «Il Testamento Biologico è una buffonata. Perché nessuno può predire come si comporterà dinanzi alla morte».
Sempre con la medesima lucidità (e con grande coraggio), prese le distanze dallo pseudo-matrimonio omosessuale, dal “diritto” di adozione per le coppie dello stesso sesso e dal conseguente mercimonio dell’utero in affitto. «L’omosessualità in sé non mi turba affatto – scriveva -. Non mi chiedo nemmeno da che cosa dipenda. Mi dà fastidio, invece, quando (come il femminismo) si trasforma in ideologia. In categoria, in partito, in lobby economico-cultural-sessuale. E grazie a ciò diventa uno strumento politico, un’arma di ricatto». E, tra le altre cose, aggiungeva: «Con quale diritto, dunque, una coppia di omosessuali (maschi o femmine) chiede d’adottare un bambino? Con quale diritto pretende d’allevare un bambino dentro una visione distorta della Vita cioè con due babbi o due mamme al posto del babbo o della mamma? E nel caso di due omosessuali maschi, con quale diritto la coppia si serve d’un ventre di donna per procurarsi un bambino e magari comprarselo come si compra un’automobile? Con quale diritto, insomma, ruba a una donna la pena e il miracolo della maternità?».
A dieci anni di distanza, voci come quella di Oriana Fallaci fanno sentire la loro mancanza.
Redazione