14/04/2020

L’altra grande e drammatica emergenza: gli aborti in casa

In questo tempo di Coronavirus, non sono mancati i problemi pratici e di abitudini di vita che via via emergevano con il passare delle settimane di “quarantena”. Fra tanti argomenti diversi, ve ne è uno in particolare, spesso nascosto “a regola d’arte”, dai mass media: l’aborto. Tale pratica è stata immediatamente etichettata come «indispensabile» e «indifferibile», da eseguirsi mediante l’iter d’urgenza, giustificato dal fatto che la gran parte delle risorse sanitarie sono  impegnate nella battaglia quotidiana alla pandemia e che pertanto vi sarebbe il serio rischio di incontrare difficoltà negli accessi in ospedale.

Varie Associazioni (SIGO, Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia, AGUI, Associazione Ginecologi Universitari Italiani, AMICA, Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto, Associazione Luca Coscioni), oltre a preparare una petizione indirizzata al Ministro della Salute, hanno sottolineato  «la necessità di rivedere alcuni aspetti delle procedure vigenti, dichiarandosi favorevoli prima di tutto a spostare il limite del trattamento da 7 a 9 settimane; favorire l’aborto chimico con Mifepristone, rispetto a quello chirurgico ed eliminare la raccomandazione del ricovero in regime ordinario o in Day Hospital di tre giorni; introdurre anche il regime ambulatoriale che prevede un unico passaggio nell'ambulatorio ospedaliero o in consultorio, con l'assunzione del mifepristone, e la somministrazione a domicilio delle prostaglandine, procedura già in uso nella maggior parte dei Paesi europei

Inoltre è proposta una procedura totalmente da remoto, monitorizzata da servizi di telemedicina, come è già avvenuto in Francia e nel Regno Unito».  Vengono persino chiamate in causa le indicazioni del FDA (Food and Drug Administration, l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici e che dipende dal Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti d'America) dove è raccomandata, dal 2016, la gestione «at home» per la IVG farmacologica, con un minor numero di controlli - fatto considerato economicamente rilevante - e con minori possibilità di infezioni ospedaliere.

Gli obiettivi dichiarati sarebbero di «ridurre un’ingiustificata ospedalizzazione di persone sane e lo spreco delle già scarse risorse economiche del Sistema Sanitario Nazionale, la regolamentazione dell’obiezione di coscienza che sarebbe ancora altissima, specie al Sud». Il risparmio di tali risorse sarebbe investito in Consultori, Contraccezione e promozione di una corretta informazione per tutti.

Leggendo però i vari Percorsi Assistenziali Regionali e Provinciali italiani , emergono immediatamente alcuni dati piuttosto interessanti. Anzitutto, l’aborto chirurgico prevede un'unica giornata di ricovero in regime di Day Surgery, mentre quello chimico ne prevede almeno due distinte, necessarie a monitorare attentamente le pazienti, date le possibili complicanze del farmaco abortivo, quali fra tutte una copiosa emorragia (95-100%) talvolta persistente (9% più di 30 giorni) e con rischio di shock emorragico, responsabile di  numerosi casi di ricovero e intervento chirurgico d’urgenza. Questo significa che, per la procedura chimica, la donna è costretta ad entrare più volte in ospedale, con maggiore rischio di infezione da COVID-19.

I dati della FDA circa la gestione a casa («at home»), che, secondo le Associazioni già citate, sarebbe da incoraggiare in questo momento storico, sono presentati come vantaggiosi dal punto di vista economico, ma in realtà non appaiono conclusioni completamente coerenti per quanto riguarda la tutela della salute della donna. Pertanto questa opzione è ancora oggetto di ampio dibattito, specie in Gran Bretagna e in Francia, dove comunque è  raccomandato un sistema sanitario molto presente, attento e attivo sul territorio, con inevitabile impiego di risorse economiche non trascurabili.

Le donne che utilizzano l’aborto farmacologico devono essere scelte con grandissima attenzione: tra le note informative e i consensi informati, infatti, vi sono lunghi elenchi di patologie che controindicano, in maniera assoluta o relativa, l’uso del Mifepristone e prostaglandina. Ciò ad indicare la pericolosità della procedura.

I casi di morte, fortunatamente rari, sono determinati dall’infezione di un batterio (Clostridium Sordellii), legata più ai meccanismi d’azione del farmaco che alla ospedalizzazione vera e propria.

Le complicanze, in generale, sono maggiori per la procedura farmacologica che per quella chirurgica e tutti i lavori della Letteratura Medica sono concordi su questi dati.

Vi è poi un aspetto non trascurabile: le esperienze traumatiche che molte donne vivono vedendo il loro figlio abortito ed espulso. Il Percorso Assistenziale di Latina descrive questo evento: «Quando abortirà, lei si accorgerà di abortire, ma normalmente non vedrà il prodotto dell'espulsione, poiché a questa epoca l'embrione misura circa 0,5-1,5 cm ed è difficilmente individuabile in mezzo al sangue, alla mucosa ed ai coaguli». Bisogna quindi anestetizzare le donne o nascondere l’oggetto dell’aborto che è un bambino (ridotto alla definizione di prodotto dell’espulsione)? In USA alcuni Stati hanno inserito nelle loro leggi per l’interruzione volontaria di gravidanza, l’obbligo della madre di vedere l’ecografia pre-aborto, che ha portato a numerosi casi di ripensamento.

Un altro aspetto importante è l’ennesimo tentativo di ridimensionare la pratica dell’obiezione di coscienza, vista con fastidio, se non addirittura con aperta ostilità, nonostante che tutte le Relazioni ministeriali di questi ultimi anni abbiano sempre evidenziato un adeguato numero di medici non obiettori e non abbiano rilevato criticità legate alla carenza di medici tali da creare «fenomeni di migrazione».

Il problema fondamentale è semmai la «privatizzazione» dell’aborto e, con essa, un’inevitabile banalizzazione, lasciando la donna, alla fine, realmente sola con conseguenze psicologiche e relazioni a volte gravissime. Lo dicono i dati clinici, la Letteratura Medica Internazionale e lo testimoniano numerosissimi blog femminili nei quali emergono, anche a distanza di anni, sofferenze, dubbi, rimorsi.

In questo periodo di pandemia, dove tutto sembra crollare, dove non sembrano più esservi certezze, dove la solitudine regna sovrana, la scelta di portare avanti una campagna abortiva aggressiva, rivestita di umanitarismo e di pietismo, non rappresenta un messaggio di speranza e neppure una risposta a molte domande. Solo la Vita che nasce è la Risposta, crea amicizie, solidarietà, al di là delle difficoltà che l’esistenza può quotidianamente presentare. La vita umana vale più di una spesa al supermercato, di un quotidiano, di un pacchetto di sigarette ed è l’unica che può dare vera risposta ai diritti delle donne, può realmente valorizzarne il ruolo primario, in una società che può dipendere in futuro anche dalle loro scelte.

 

 

di Stefano Martinolli

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