Valentina Petrillo, atleta trans ipovedente, ha recentemente vinto la medaglia di bronzo - dietro la cubana Omara Durand e la venezuelana Perez Lopez - nella categoria T112 dei 400 metri alle Paraolimpiadi in corso a Parigi. Questo piazzamento ha naturalmente riportato all’attenzione delle cronache Petrillo, la cui storia era al centro della produzione di un film documentario intitolato 5 Nanomoli – Il sogno olimpico di una donna trans.
C’è però anche chi contesta, non senza validi e più che ragionevoli argomenti come vedremo subito, la partecipazione di Petrillo (come di ogni altra atleta transgender, del resto) alle competizioni femminili. Il riferimento è qui al sito Feministpost.it, che – ricostruita la storia di Petrillo, classe 1973, atleta che dal gennaio 2019 (45 anni) ha intrapreso una «terapia ormonale» e a partire dal 2020 partecipa alle gare femminili – ha fatto un confronto interessante, quello tra i tempi “pre-transizione” e “post-transizione” di quest’atleta.
Ecco le valutazioni di Feministpost.it: «Si evince quanto il record personale di Petrillo sui 400m fosse lontano da tutti i record maschili, sia rispetto al record dei coetanei master M45 sia rispetto al record paralimpico italiano ipovedenti T12/T13, tempo più lento di oltre 6 e 4 secondi rispettivamente, pari a +12,7% e 9,1%, percentuali utili per confronti successivi». «Quando Petrillo afferma di detenere ora 5 record italiani su 6 nelle corse veloci T13 (200m-400m, indoor e outdoor, 60m indoor)», conclude il sito, «dice il vero ma questo è un ulteriore elemento a sostegno del vantaggio iniquo acquisito perché non risultano record “pre-transizione” tra gli uomini».
Insomma, diversamente da quanto affermato dall’atleta – che ha sostenuto che era vincente anche nell’era “pre-transizione” -, sembrerebbe invece il contrario, e cioè che la grande parte della sua affermazione agonistica sia avvenuta non già prima bensì, attenzione, dopo l’iter di rassegnazione sessuale. Il che, beninteso, non costituisce nulla di strano, ma semmai conferma un dato già acquisito, e cioè quello che le donne transgender godono di un vantaggio competitivo che verosimilmente non avrebbero avuto “pre-transizione”, ma che quando gareggiano con le donne biologiche invece diventa - e resta - elevato. La stessa ricerca scientifica su questo punto è arrivata a conclusioni inequivocabili.
Come infatti ha fatto presente la biologa Emma Hilton, attualmente esistono due analisi accademiche di quelli che sono i cambiamenti nelle donne transgender che hanno abbassato il loro livello di testosterone. La prima è una ricerca pubblicata su Sports Medicine, la seconda sul British Journal of Sports Medicine. «Entrambi questi studi», ha notato la Hilton, «concludono che la perdita di massa muscolare e di forza è piccola, e che quindi il vantaggio rispetto alle donne biologiche viene mantenuto». Queste considerazioni sono state ritenute valide anche al di fuori della cerchia del mondo accademico.
Basti vedere la nota diffusa il 23 marzo scorso con cui il Consiglio della World athletics - la federazione internazionale dell’atletica leggera che si occupa di monitorare le federazioni nazionali e di organizzare le competizioni internazionali - ha deciso di escludere dal giorno 31 dello stesso mese tutte le atlete trans che hanno vissuto uno sviluppo sessuale, cioè la pubertà, come maschi, lasciando la sola possibilità di partecipare alle competizioni sportive, invece, alle atlete che hanno cominciato la transizione in età infantile. Non solo. Anche il Comitato Olimpico ha deciso di fare marcia indietro sullo sport “inclusivo” dei corpi maschili negli sport femminili.
Resta tuttavia vero che l’atletica mondiale non ha giurisdizione sull’atletica paralimpica mondiale, che è invece sotto il controllo del Comitato paralimpico internazionale (IPC). Ma ciò che conta, in tutta questa vicenda, più che le giurisdizioni o le decisioni – che comunque iniziano ad essere tante e significative – di importanti organizzazioni sportive, è il dato scientifico che le stesse storie di atlete transgender confermano: “post transizione” chi era nato uomo si ritrova comunque a godere di un vantaggio competitivo sulle atlete donne, che pertanto rischiano di essere ingiustamente messe in condizioni agonistiche senza dubbio sleali e penalizzanti.