La Corte Costituzionale, con una pronuncia del 2008 sul tema del consenso informato, in un obiter dictum «forse non sufficientemente meditato» (M. Ronco, “Volontà anticipate e volontà attuale: quale autonomia?”, in C. Navarini (a cura di), Autonomia e autodeterminazione, Profili etici, bioetici e giuridici, Roma 2011, p. 67), dichiarò: «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute» (Corte Cost., sent. 23/12/2008 n. 438). Si può anche richiamare un passaggio della pronuncia della Corte di Cassazione sul famoso “caso Englaro”: «Il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea, le quali sono tutte profili della libertà personale proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost. […] Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita» (Corte di Cassazione, Sezione I civile, sent. 16/10/2007 n. 21748).
Sebbene in questi casi l’autodeterminazione sia nominata in riferimento al trattamento sanitario, il principio enunciato ha una portata evidentemente generale, pertanto relativa anche alla questione dell’aborto. Anzi, allo stato dell’orientamento generale della cultura e della giurisprudenza, per quanto riguarda la “interruzione volontaria della gravidanza”, l’autodeterminazione tocca il suo vertice, poiché in tal caso è esercitata come diritto di veto sulla vita altrui. Quel che sembra passare del tutto inosservato è il senso profondo di una simile impostazione filosofico-giuridica: «Se l’autodeterminazione fosse un diritto fondamentale della persona, più nessuna legge sarebbe ammissibile, perché la legge non avrebbe il “diritto” di vincolare la condotta dell’uomo. […] Ogni diritto consiste nel riconoscimento di una libertà soggettiva per il conseguimento di un bene e, dunque, nella tutela di una facoltà di azione in vista di un fine. […] L’ordinamento giuridico può consentire che il soggetto non persegua il bene in vista del quale il diritto è riconosciuto, ma non trasformare in “diritto” la mera libertà di fatto di distruggere il bene che costituisce la ragione per cui il diritto sussiste» (M. Ronco, op. cit., pp. 67-71).
Si può ricordare, a ulteriore conferma di quanto detto nella Parte I e nella Parte II della trattazione, in merito alla “onnipotenza” di questo “nuovo diritto”, ciò che scrive Francesco D’Agostino: «Il valore che sta a fondamento dell’etica, cioè il bene, e quello che sta a fondamento del diritto, cioè la giustizia, hanno una struttura relazionale: dipendono dall’oggettività del rapporto e non dalla volontà soggettiva di chi del rapporto è parte. […] L’autodeterminazione, da impegno consapevole e quindi meritorio, per il bene, diviene arbitrio insindacabile. E a questo punto la paranoia della modernità diviene di fatto un vero e proprio delirio […]; perché l’autodeterminazione, pensata nella logica libertaria e non liberale dell’insindacabilità delle preferenze soggettive, trasforma i diritti dell’uomo nei diritti dell’io» (F. D’Agostino, “Introduzione ai lavori: paranoie della modernità”, in F. D’Agostino (a cura di), Autodeterminazione: un diritto di spessore costituzionale? (Atti del convegno nazionale dell’U.G.C.I. Pavia 5-7 dicembre 2009), Milano 2012, pp. 6-8). Da questa trasformazione derivano insanabili contraddizioni.
Innanzitutto va notato che in quest’ottica si profila una inevitabile indeterminatezza dei limiti del potere di autodeterminazione che, pertanto, sarebbe giuridicamente libero di espandersi in ogni direzione e in misura indefinita. In questo modo potrebbe finanche superare gli argini della costituzione formale (il Documento) attraverso la strumentalizzazione politica del concetto di costituzione materiale (insieme dei princìpi e delle prassi costituzionali): tradizionalmente la Corte Costituzionale, per elaborare le nuove generazioni di diritti, usa una tecnica non “politica”, ma ermeneutica, che garantisce (almeno in linea teorica) una certa aderenza al testo della Costituzione; nel caso dell’autodeterminazione la “creazione” dei nuovi diritti troverebbe invece il fondamento nelle pretese del singolo, anche in quelle sganciate da ogni logica etico-giuridica, magari in opposizione allo spirito della Costituzione (Cfr. S. Mangiameli, “Autodeterminazione: diritto di spessore costituzionale?”, in C. Navarini (a cura di), Autonomia e Autodeterminazione, pp. 95-99).
Si possono citare alcuni casi divenuti “classici” del dibattito bioetico: dalle mutilazioni genitali femminili, alla sterilizzazione volontaria irreversibile, fino ad arrivare alla commercializzazione di parti del proprio corpo. Sono tutte fattispecie che finora hanno incontrato il limite della dignità umana quale bene indisponibile, a nulla essendo servito il consenso, pienamente informato, delle persone interessate alle suddette pratiche. Tuttavia, dinanzi all’autodeterminazione come diritto fondamentale e inviolabile, ogni limite è destinato a cadere.
Vincenzo Gubitosi