Un recente dossier di Save the Children dedicato a “Le equilibriste”, ovvero alle donne che lavorano, dà le dimensioni della penalizzazione delle lavoratrici, con e senza figli. «Nel 2020, a causa della pandemia – afferma il rapporto - sono evaporati 456 mila posti di lavoro», con effetti negativi più marcati per le donne. «Per loro il calo è di 249 mila unità (- 2,5%) contro i 207 mila uomini (- 1,5%)».
«Ma anche quando le donne accedono al lavoro – continua il documento – la loro condizione occupazionale continua ad essere caratterizzata da una debolezza strutturale che finisce per renderle più esposte ai rischi di espulsione dal mercato, rispetto agli uomini».
A tutto questo si sommano le ulteriori difficoltà che devono gestire le mamme lavoratrici, spesso considerate un peso dai loro datori di lavoro. E proprio in occasione della Giornata Internazionale della Donna, durante la quale tanto si parla delle mille difficoltà che sono costrette ad affrontare le poche donne che vogliano conciliare famiglia e carriera, abbiamo voluto sentire una di loro, una mamma lavoratrice che ci racconta la sua esperienza in merito, la psicologa e psicoterapeuta Antonella Roppo.
Innanzitutto com’è cambiata la sua vita dopo l’arrivo di suo figlio Biagio?
«La mia vita è cambiato totalmente, in primis dal punto di vista organizzativo, mi sono ritrovata con abitudini totalmente stravolte. Giornate con ritmi molto più serrati rispetto a prima e questo dal punto di vista emotivo non è semplice, perché ti ritrovi a non pensare più solo a te stessa ma ad un nuovo essere umano che dipende totalmente da te. E’ una bella sfida».
C’è forse un clichè ancora duro a morire oggi e cioè che le donne debbano scegliere tra carriera e maternità. Sei d’accordo?
«Sono d’accordo in parte. La donna di fatto potrebbe secondo me, sia lavorare sia crescere dei bambini. Tuttavia conosco donne che non riescono a conciliare entrambe le cose. Purtroppo ho vissuto e assistito a diversi episodi di discriminazione di mamme che rientrano al lavoro dopo il congedo di maternità. Mi riferisco a demansionamenti o alla riduzione del carico di lavoro, tante piccole discriminazioni perpetrate contro chi si concede il “lusso” della maternità. L’Italia non è decisamente un paese di famiglia».
Le è capitato di toccare con mano tutto questo?
«Personalmente sì, all’interno della mia pratica clinica ci sono un sacco di donne che dopo il congedo di maternità si ritrovano con un datore di lavoro particolarmente ostile al ritorno dalla maternità. Io che ho portato avanti una gravidanza a rischio, posso dire che anche questa condizione viene vista come un lusso, un privilegio dal datore di lavoro, ma sappiamo bene che non è così».
Ultimamente ha fatto notizia il caso di Simone Terreni, imprenditore che ha deciso di assumere una giovane donna che durante il colloquio di lavoro ha rivelato di essere incinta. Il clamore che ha suscitato questo episodio non ci dà il polso di quanto la maternità oggi sia vista come un ostacolo dai datori di lavoro?
«Il clamore che ha suscitato questa notizia ci fa comprendere che si è ben lontani dal capire quanto una donna che diventa mamma acquisisca una serie di competenze e di flessibilità tutte particolari. Ci sono degli studi che dimostrano quanto cambi il cervello dopo la maternità, quindi sul lavoro, le donne che sono anche mamme possono rendere molto di più rispetto a prima. Purtroppo, però, questo non viene valorizzato».
Proprio in base alla sua esperienza di psicologa, quanto è importante, per una donna, riuscire a coniugare serenamente il lavoro e la famiglia? E diversamente a quali problemi può andare incontro?
«Secondo una ricerca Istat solo il 57% delle mamme lavora e questo dato scende ancora di più se parliamo di mamme con bambini al di sotto dei 5 anni. Quindi le donne che lavorano, poi, si devono far aiutare dalla famiglia necessariamente. Infatti i servizi di assistenza e quindi gli asili nido o altri tipi di realtà come queste, sono poche e non ben organizzate. Nel momento in cui le neo mamme non riescono a conciliare la maternità col lavoro, possono insorgere disturbi d’ansia e disturbi da stress-lavoro correlato, difficoltà che si ripercuotono sui figli che potrebbero attirare l’attenzione dei genitori, per troppe ore fuori a causa del lavoro, in modo disfunzionale. Il problema è che, peraltro, che il sistema lavorativo delle donne è calibrato su quello dell’uomo e questo non va bene perché è impensabile con un bambino piccolo uscire alle 8 di mattina o privare un bambino di pochi mesi del contatto con la mamma per molte ore, proprio nel periodo dell’esogestazione, che è un momento delicatissimo di adattamento del neonato alla realtà esterna, in cui la mamma è un tramite importantissimo».