17/03/2014

Mancava solo l’intervista alla ginecologa «costretta all’obiezione dall’ostilità dei colleghi»

Continua la campagna contro l’obiezione di coscienza... dopo il caso della ragazza di Roma, ora la vicenda della dott.ssa Cirillo. Leggiamo cosa scrive su Tempi Pietro Piccinini

Non è bastata la patetica montatura del caso di Valentina Magnanti, la donna «abbandonata ad abortire in un bagno» dell’ospedale Pertini di Roma. Come se nulla fosse accaduto nel frattempo, come se non si fosse scoperto che la storia (scandalosa) non c’entrava nulla con l’obiezione di coscienza alla legge 194 praticata dalla maggior parte dei medici del nosocomio, ecco che Repubblica rilancia tranquillamente la sua campagna turboabortista proponendo in prima pagina la vicenda penosa della dottoressa Rossana Cirillo, genovese, «ginecologa femminista e militante», che «dopo venticinque anni di aborti, dopo una vita al servizio della legge 194 e dunque delle donne», poveretta, si è vista obbligata a smettere di interrompere gravidanze ma solo per colpa – recita il titolo dell’articolo di Maria Novella De Luca – dei «colleghi ostili».

MINACCE, EMARGINAZIONE. Naturalmente i “colleghi ostili” sarebbero gli obiettori, che al Villa Scassi di Genova come in moltissimi ospedali d’Italia sono la maggioranza. Ma è tutto il sistema, sostiene Repubblica, che la pensa come loro. La giornalista scrive di «minacce» subite dalla ginecologa, «ostilità dell’ambiente», «boicottaggio». Addirittura la dottoressa Cirillo dice di essere stata «tagliata fuori dalla carriera», «emarginata dall’ospedale che ha sempre considerato il mio un lavoro degradante». Ma a parte le lamentazioni generiche (e a parte il fatto che è difficile trovare un medico che consideri il praticare l’aborto un lavoro “nobilitante”), in realtà, leggendo le parole consegnate dalla dottoressa al quotidiano, si capisce che il punto non sono affatto gli sguardi torvi degli obiettori di coscienza che Repubblica lascia immaginare al lettore.

«ERAVAMO RIMASTE IN DUE». Occorre prescindere dalle forzature del quotidiano e scorrere con attenzione alcuni passaggi dell’intervista:
«Quando ho scelto la specializzazione in ginecologia – racconta la Cirillo – militavo nel collettivo femminista di Genova, ero politicamente vicina al Manifesto. L’autocoscienza, l’autovisita, i consultori. Entrare nel servizio delle interruzioni volontarie di gravidanza, mi sembrò un approdo naturale del mio percorso sia umano che professionale». E all’inizio «avevo accanto un gruppo di medici motivati e impegnati nel garantire l’applicazione delle legge». Peccato però che poi «quasi immediatamente tutti si dichiararono obiettori. Eravamo rimaste soltanto in due, un’infermiera ed io, senza nemmeno un anestesista, mentre il lavoro cresceva a dismisura. Non potevo partecipare ai convegni, non potevo assentarmi, fare altro: solo e soltanto aborti. Ho tenuto duro per un tempo infinito, senza di me il servizio si fermava, ma sentivo un peso ormai insostenibile».

TURNI MASSACRANTI. Maria Novella De Luca scrive che la ginecologa doveva sottoporsi a «turni massacranti», era «costretta a fare aborti come in una catena di montaggio, senza più nessun contatto con le pazienti». Ancora la dottoressa Cirillo:
«Il mio direttore sanitario non mi ha mai sostenuto. Ricordo però che un giorno mi disse: “Non capisco dottoressa perché lei fa tutto questo ma evidentemente ci crede davvero”». E in effetti ci ha creduto davvero per 25 anni, finché «qualcosa dentro di me si è rotto». «Alla fine degli anni Novanta con l’arrivo in massa delle immigrate (…) si presentavano decine di donne disperate, nigeriane, albanesi, cinesi, figlie della miseria e delle prostituzione. Abortivano e se ne andavano. Impossibile senza mediatori culturali, senza assistenti sociali, instaurare un rapporto con loro. Ho cominciato a stare male. Mi sentivo soltanto un braccio esecutore».

IL PROBLEMA. Ecco. Perfino da un articolo fazioso come questo traspare in maniera abbastanza limpida qual è il problema della legge sull’aborto in Italia. Anche volendo credere che abortire sia davvero un «diritto acquisito», come sostiene a torto la ginecologa genovese (dimenticando forse che anche nascere sarebbe di per sé un “diritto” di qualche importanza), il problema è la realtà. “Diritto”, “autocoscienza”, “libertà di scelta”. A un certo punto, dalle belle parole da collettivo femminista, bisogna passare alla sala operatoria. È lì dentro che iniziano a tremare le mani dei medici. Anche quelli atei. Anche quelli «motivati e impegnati nel garantire l’applicazione delle legge». È una palla sesquipedale che i ginecologi abortisti siano niente meno «boicottati» e gli obiettori favoriti (solo Repubblica può sostenere ancora senza ridere che l’Italia sia un paese confessionale). Il problema dell’aborto non sono gli obiettori e non è «l’ostilità dei colleghi». Il problema dell’aborto è l’aborto.

COSA DICEVA GIORGIO PARDI. Leggere, per cortesia, questa grandiosa intervista al purtroppo scomparso Giorgio Pardi, luminare di fama internazionale, primo medico in Italia a praticare un’interruzione di gravidanza volontaria e legale. Ateo fatto e finito, sempre favorevole alla depenalizzazione dell’aborto e alla legge 194, con un’onestà intellettuale unica Pardi non si nascondeva il fatto che «l’aborto è un omicidio»; perciò, diceva, «bisogna fare in modo che la donna non abortisca». Metterla nelle condizioni (economiche e personali) di poter scegliere davvero liberamente. Del resto è quello che prescrive la norma nella sua parte, questa sì, quasi totalmente inapplicata.

E AUGIAS CI RICASCA. Qualcuno dovrebbe spiegarlo a Corrado Augias, che sempre oggi e sempre su Repubblica, nella rubrica delle lettere, sostiene che per tanti professionisti l’obiezione di coscienza sia solo «un alibi» (ma alibi de che?) e arriva a valorizzare le proposte, avanzate dai lettori, di «pensare a una voce in busta paga di indennità» per i ginecologi abortisti, «precludere l’accesso alla scuola di specializzazione di ginecologia e ostetricia ai medici che non intendono praticare l’aborto» o impedire loro di «praticare nelle strutture pubbliche». Con un’aggiunta finale di un certo livello: «Una visione più umana di questi argomenti sarebbe importante per il rilancio della Chiesa. Privando tante false coscienze di un comodo alibi». Una visione più umana.

di Pietro Piccinini

Festini

 

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