Un’atleta che sembra nata per correre: ex velocista, ha vinto due volte la medaglia di bronzo agli Europei, ben 17 titoli italiani e detiene 13 record nazionali, tra cui quello sui 100 metri che dura tuttora a distanza di vent’anni. Parliamo di Manuela Levorato, che tra le sue conquista e gioie più grandi annovera anche tre figli. Oggi presidente onorario dell’Atletica Riviera del Brenta e vicepresidente di Fidal Veneto, ci racconta il suo rapporto con lo sport e come è riuscita a conciliare la sua impegnativa vita di atleta con le gravidanze.
Il suo è stato un percorso agonistico straordinario, non purtroppo senza infortuni, tra cui quello subito pochi minuti prima di scendere in pista per la sua prima olimpiade a Sidney, nel 2000, come ha superato quei momenti?
«Credo di essere nata per correre. E’ la cosa che mi è sempre riuscita meglio e in modo istintivo. Quando mi è accaduto quell’infortunio a Sidney ero all’apice: ero dentro il villaggio olimpico, dormivo con un piumino con lo stemma delle Olimpiadi, nelle casette deliziose del villaggio. Dopo aver assaporato tutto questo ho cominciato ad avere dolore al piede senza ricevere risposte da nessuno su cosa mi stesse succedendo. Sono stata costretta a tornare subito a casa e a cercare conforto nei miei affetti più cari che mi hanno guarito quella ferita, più di qualunque altro ortopedico. Tuttavia chi mi ha aiutato di più in quel momento è stato il mio fidanzato dell’epoca. Dopo quella circostanza, ho dato una svolta alla mia vita e alla fine mi sono ristabilita, anche se inizialmente volevo lasciare. Dopo, grazie al calore umano, sono tornata più forte di prima. Infatti, successivamente, ho ottenuto il record italiano che dura tuttora, da più di vent’anni e subito dopo una serie di medaglie europee».
Non ha potuto partecipare ai Giochi Olimpici di Pechino perché impegnata nella “specialità gravidanza”. Come, la maternità, ha cambiato il suo modo di vivere lo sport?
«L’ha cambiato molto: ero, peraltro, negli ultimi anni buoni della mia carriera, perché dopo i trent’anni, una sprinter fa molta fatica a correre forte perché essendo uno sport di potenza e non di resistenza, dopo i 30 anni, i cambiamenti ormonali, su questo, incidono moltissimo. E’ stato micidiale, mi è sembrato di aver perso i “super poteri”. Eppure questo è durato solo per un periodo. Infatti, dopo che ho avuto Giulia nel 2008, con quattro operazioni ai tendini e la mia bambina in braccio, sono riuscita a riagguantare la maglia azzurra. Ho dovuto comunque fare delle scelte molto drastiche: a parte la cura per Giulia, la pista e la palestra, non c’era più tempo per nient’altro. Addirittura portavo mia figlia in pista, la mettevo nella buca della sabbia e lei rimaneva lì a giocare, veniva con me anche in palestra: è veramente figlia di piste e impianti sportivi, tant’è che adesso fa atletica di sua sponte. Una cosa ho imparato da questa esperienza: non si deve avere paura di chiedere aiuto».
Che consiglio si sente di dare alle atlete oggi, per conciliare sport e maternità?
«Conciliare sport, se vogliamo parlare di agonismo e maternità è quasi impossibile. Purtroppo sta nella natura stessa dell’atleta che lavora con il proprio corpo, dover decidere. Ovviamente dipende anche molto dallo sport, anche se ci sono molti esempi di mamme che sono tornate alla ribalta. Io mi ricordo, ad esempio, Margherita Zalaffi, proprio alle olimpiadi di Sidney, con la figlia di pochi anni, a seguito. Credo che una cosa del genere si possa fare se hai una struttura che ti sostiene, sia a livello economico, sia familiare. Dovrebbe esserci obbligatoriamente, in realtà, perché non dovremmo fare dei conti, a fine carriera, per poter avere dei figli. La società ci impone un po’ questo e non è giusto».