Ha scritto Martin Buber che “ciò su cui si fonda il matrimonio è il fatto che due esseri umani rivelino l’uno all’altro il tu”.
Chi ha contratto un matrimonio, nell’intenzione sacramentale, – scrive ancora il filosofo – ha preso “sul serio il fatto che l’altro è: che non posso legittimamente prender parte all’esistenza senza prender parte all’essere dell’altro; che non posso rendermi responsabile senza coinvolgere in questa responsabilità anche l’altro, come colui che mi è affidato”.
Pertanto, ciò che lo rende particolare è che si dice “Io ti amo per sempre”. Il ‘per sempre’ aggiunge un connotato specifico all’“Io ti amo”, che è il contenuto comune di ogni unione umana, indirizzando il matrimonio all’indissolubilità.
Non è la stessa cosa dire “Tu mi piaci” o “Io ti accolgo nella gioia e nel dolore” come avviene nella celebrazione del matrimonio in Chiesa, perché nella seconda affermazione vi è un impegno di fedeltà, che va al di là della sensazione del momento e anche del sentimento. E’ come dire: “Mi piaci solo tu da oggi in poi”. “Mi piaci”, anche se un giorno smetterai di essere quello che mi appari oggi, ossia nella buona e nella cattiva sorte.
E’ qualcosa in più di essere innamorato. L’innamoramento contiene ancora scorie di egoismo o di egocentrismo. Perciò, corre il rischio di tramutarsi in una sorta di monologo. Si può essere, infatti, innamorati della propria passione, della propria sensazione o emozione. Si può finire quasi inavvertitamente per godere dell’altro in rapporto a se stesso.
Ma l’amore, si sa, è altro.
Ciò che intendiamo è che il ‘Tu’ dell’amore è autentico. Può anche non convenire e opporre resistenza a quello che crediamo, vogliamo o pensiamo, ma resta esclusivo, speciale, unico per me. Ed è per questo che, come ha scritto J. Maritain: “Noi non amiamo le qualità, ma le persone, talvolta a causa dei lori difetti come delle loro qualità”.
Ciò che intendiamo è un dialogo non sentimentale, non sfilacciato, un amore che sa essere severo e tenero allo stesso tempo, semplice nella misura in cui è profondo, autentico come il volto che abbiamo dinnanzi e che non smette di stupirci. Non è tanto, quindi, un voler ‘essere felice con te’, ma un ‘volere che tu sia felice’.
Ora, tutto questo è a dir poco dirompente, destabilizzante, in una società, la nostra, che ama definirsi postmoderna. Il sociologo Zygmunt Bauman, grande pensatore, nei suoi libri sostiene che l’incertezza che l’attanaglia la configura come ‘società liquida’. Si riferisce, in particolare, allo smantellamento in atto delle sicurezze e dei punti di riferimento valoriale. Si riferisce a quel modo frenetico di vivere il tempo dell’esistenza, per cui la strategia vincente impone quasi di astenerci dal contrarre impegni a lungo termine. Evitiamo – osserva – “come il fuoco tutto ciò che esiste per sempre, nei secoli dei secoli e finché morte non ci separi”. Rifiutiamo legami illudendoci così di essere padroni della nostra vita. Tanto meno giuriamo eterna fedeltà a qualcuno o a qualche causa. Siamo come giocatori d’azzardo che fanno in modo che le conseguenze del gioco non durino mai più del gioco stesso.
Così le nostre relazioni si sono ammalate di provvisorietà. Non sanno osare oltre. Rincorriamo una libertà autarchica ed escludente. Viviamo di solitudine e la solitudine, si sa, può mutare in idiosincrasia.
Quanto alla sessualità, essa tende a ridursi ad un piacere egoistico in cui l’altro diventa mero strumento. Nelle teorie del gender diventa orientamento, qualcosa che ha a che fare con la scelta, la libertà individuale. Si restringe, quindi, all’ambito etico, laddove essa è un dato ontologico, non un’opzione. Si dimentica che indica una modalità relazionale della persona, in quanto conferisce un carattere proprio alla sensibilità, agli interessi, alle percezioni. Tutte le attività, infatti, sono sessuate. Da essa dipende non solo la relazione con un tu particolare, ma qualsiasi tipo di relazione in cui venga messa in moto l’affettività. Nell’orientamento individualistico si arriva, invece, ad una sessualità non comunicativa, ad una sessualità come egoistica fruizione del piacere, e la purezza dell’amore diventa tecnica di possesso e, quindi, di dominio.
L’amore fa di due distinti un’unità che non soffoca la diversità. “Quest’essere umano – ha scritto sempre Martin Buber – è diverso, essenzialmente diverso da me, e io intendo questa sua diversità, la confermo, perché intendo lui, voglio il suo essere diverso perché voglio il suo essere così com’è”. In tal senso, l’amore realizza la forma di relazione più profonda, che supera la distanza che ci divide dall’altro e, nello stesso tempo, dilata il nostro io al di là del proprio mondo chiuso. Ci fa cogliere il mistero del nostro essere uomini come parte di un mistero ancora più grande.
Per sostenere questo amore, fedelmente ed indissolubilmente, adesso sì, ci vuole coraggio. E, in ottica cristiana, è necessario “il coraggio di far parte del sogno di Dio, il coraggio di sognare con Lui, il coraggio di costruire con Lui, il coraggio di giocarci con Lui questa storia, di costruire un mondo dove nessuno si senta solo” (Amoris Laetitia, paragrafo 321).
Clemente Sparaco