18/04/2020

“Medico” annega bambino sopravvissuto all’aborto

Compito del medico è curare, non uccidere. È raccapricciante dover leggere di un medico che ha annegato un bambino sopravvissuto a un aborto alla trentaquattresima settimana di gravidanza.

Piangeva, spiega un articolo di Life News, citando le testimonianze del personale sanitario: era nato vivo, nonostante ciò non fosse previsto. Ciò che doveva avvenire, infatti, non era una nascita, ma un aborto. Alla trentaquattresima settimana.

Insomma, siamo giunti davvero al ridicolo: dicono che l’aborto non è omicidio, quando ormai non c’è più bisogno di prove del fatto che la vittima in questione sia un bambino vivo e vero. Si nega l’evidenza. E il modo in cui è uscito dal grembo materno - non tramite un parto naturale, ma tramite un aborto – giustificherebbe un omicidio ancor più palese: l’annegamento di un bambino ormai nato.

Allora basta mentire: l’aborto legale è omicidio legale. I più illustri manuali scientifici ed il 96% dei biologi (persino abortisti) ammette che sin dal concepimento ha inizio la vita di un nuovo essere umano, vero e proprio. 

Come ben sappiamo, inoltre, l’aborto può comportare gravi rischi anche alla salute fisica e psichica femminile. Avevamo già spiegato, infatti, che «il Center for Disease Control and Prevention, ente governativo statunitense, ammette che dal ’73 a oggi sono quasi 500 le donne morte per aborto legale solo negli Stati Uniti, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità confessa che ogni anno circa 150 donne in Europa, e nel resto del mondo addirittura decine di migliaia, muoiono a causa dell’aborto. L’aborto in pillole (RU486), poi, moltiplica per dieci volte il rischio di morte per aborto e nel 2014 due giovani donne sono morte anche in Italia».

Si parla di donne morte. Morte a causa dell’aborto. Non nascondiamoci dietro a un dito: l’aborto elimina un bambino e nuoce a sua madre. L’aborto legale non è necessariamente “sicuro”, come dicono gli slogan. Rispettiamo le donne, piuttosto, e aiutiamole ad accogliere la vita, piuttosto che presentare loro l’aborto come garanzia di emancipazione del genere femminile.

 

di Luca Scalise

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