Nel dibattito politico degli ultimi decenni, è del tutto scomparsa ogni discussione sul tema della revisione della legge n. 194, che disciplina l’interruzione volontaria della gravidanza. Le ragioni sono a tutti evidenti. L’esistenza di maggioranze politiche molto eterogenee dal punto di vista culturale, molto fragili e poco compatte ha prodotto l’espunzione di un tema che, essendo visto in modo opposto all’interno di ambedue le coalizioni partitiche, viene considerato estremamente “pericoloso” per la stabilità politica. Eppure non è una novità affermare che la legge n. 194 è frutto di una visione culturale che oggi viene ritenuta dalla maggioranza degli studiosi superata, oltreché di difficile armonizzazione con la decisione fondamentale che in tale materia ha pronunziato la Corte costituzionale nel 1975 e da allora mai rinnegata. Quest’ultima, infatti, ha correttamente impostato il problema costituzionale dell’aborto volontario come conseguenza del conflitto tra il diritto alla vita della madre e quello del nascituro (che è considerato dalla Corte «persona» sin dal momento del concepimento) i due diritti, parimenti fondamentali e inviolabili (ex art. 2 Cost.), e dunque di egual valore giuridico. Partendo da tale premessa, la Corte ha giustificato costituzionalmente l’aborto soltanto di fronte al fatto, accertato da un medico, che la continuazione della gravidanza arrecherebbe un serio pericolo alla sua salute fisica e psichica della madre. È noto come questo requisito essenziale sia stato applicato con molta, anzi eccessiva, latitudine nella prassi sanitaria di ogni giorno, tale da ridurre in molti casi l’aborto a una libera scelta della donna incinta. Non è questa la sede per discutere ciò. Mi preme invece sottolineare un altro aspetto connesso a tale prassi, diciamo così, creativa. La legge n. 194, mentre resta fedele ai principi costituzionali allorché richiede una motivazione terapeutica per poter giustificare il ricorso all’aborto, nello stesso tempo stabilisce regole copiate da altre esperienze giuridiche – in specie quella degli Stati Uniti d’America – che in realtà muovono da una concezione dell’aborto come libertà costituzionale. Mi riferisco in particolare al termine di tre mesi posto come limite temporale per poter procedere legittimamente all’interruzione volontaria della gravidanza. Tale termine, in realtà, è stato escogitato dalla Corte Suprema nel famoso caso Roe v. Wade del 1973 (e poi seguito da varie leggi di molti altri Stati), muovendo dalla premessa definitoria (e apodittica) che il concepito non è «persona» fino a che non risulta capace di una vita di relazione (sociale) autonoma, e cioè fino all’incirca al sesto mese di gravidanza. Su questa base la Corte americana riconosceva l’aborto come libertà, anzi come diritto di privacy (e quindi come diritto il cui esercizio non si scontra, né può scontrarsi, con diritti di altre persone), fino ai primi tre mesi di gravidanza, mentre esigeva una motivazione terapeutica a difesa della salute (fisica e psichica) della madre per i successivi tre mesi. Non c’è bisogno di interrogarsi su quale conoscenza scientifica la Corte americana basasse tale bipartizione trimestrale, poiché in realtà non era basata su nulla, tantomeno su qualche fattore di diversità che intervenisse nel processo di sviluppo biologico del feto. Si vuole solo sottolineare che il termine da essa escogitato, una volta che è stato ripreso dalla legge n. 194, ha introdotto in quest’ultima un elemento di incoerenza con l’approccio della collisione tra due contrapposti diritti (alla vita) di carattere inviolabile, sul quale la Corte costituzionale italiana ha basato la sua giustificazione costituzionale dell’interruzione volontaria della gravidanza. Quel termine, infatti, si fonda sulla tesi che si è «persona» solo quando si è autonomamente capaci di una vita di relazione (sociale), cioè sulla teoria della vitalità, mentre la possibilità di abortire è giustificata dalla Costituzione italiana (a giudizio della Corte costituzionale) soltanto a partire dalla tesi che il concepito è già «persona». Se vivessimo in un Paese serenamente democratico, desideroso di migliorare la qualità della legislazione e della vita civile, ogni residuo di una teoria, come quella della vitalità, oggi screditata e perciò respinta da tutti, verrebbe rivisto ed emendato. Ma il dubbio che ciò avvenga, non può non gettare un’ombra anche sulla premessa appena posta.
di Antonio Baldassarre, Presidente emerito della Corte Costituzionale