«Quando studiavo medicina all’università, decisi di diventare neonatologa perché volevo aiutare con le mie conoscenze i bambini che venivano al mondo con problemi di salute. Il mio desiderio era di vederli guarire per poi poterli mandare a casa sani e felici con i loro genitori. Ma poi mi è accaduto di prendermi cura anche di quelli che hanno una vita brevissima, e che a casa non tornano. Non è stato per un progetto, mi ci sono trovata in mezzo. E dicendo sì a quelle circostanze ho imparato cos’è la vita e cosa vuol dire fare il medico». Elvira Parravicini, brianzola di Seregno trapiantata negli Stati Uniti, dal 1998 lavora al Morgan Stanley Children’s Hospital di New York, un ospedale pediatrico affiliato alla Columbia University. «Come neonatologa mi è sempre piaciuto partecipare alla diagnosi prenatale per poter dare ai genitori una prospettiva di cura per i loro bimbi, ancora prima che nascano. Putroppo però la diagnosi prenatale è sempre più centrata sull’identificazione dei difetti congeniti al fine di abortire il bambino, nel caso non sia sano. Eliminare il paziente invece di curarlo mi sembrava la negazione della mia vocazione professionale, per cui ad un certo punto ho smesso di partecipare alle riunioni settimanali di diagnosi prenatale in ospedale, dove i ginecologi proponevano sempre l’aborto e io mi sentivo impotente e inutile. Dopo due anni di assenza, nel 2006, un giorno una collega dell’ostetricia mi rilancia l’invito: “Elvira, perché non torni? Sono riunioni interessanti, si imparano tante cose”. Mi sento provocata, Qualcuno mi sta chiamando a ritornare lì. Va bene, mi dico: soffrono i bambini, soffrirò anch’io con loro. E decido di provare.
Tre giorni dopo partecipo alla riunione e, incredibilmente, vengono presentati due casi di donne gravide che aspettano bambini con patologie life-limiting – letali, non suscettibili di trattamenti medici o chirurgici – e quindi destinati a un’esistenza molto breve, le cui madri non vogliono abortire. I ginecologi sono sorpresi e smarriti: che si fa? A quel punto alzo la mano e dico: mi prendo io cura di loro, propongo la comfort care, c’è una possibilità di trattamento medico anche per questi piccoli’. Capivo che la vita, anche se è corta, deve essere la più bella e intensa possibile».
La comfort care è una pratica medica che ha come fine aiutare il paziente a ‘sentirsi bene’, per quanto possibile, in qualsiasi condizione si trovi. E così il benessere della persona diventa il centro del trattamento. Dovrebbe essere usato sempre nella pratica medica, perché ogni paziente vuole ‘sentirsi bene’, ma qui diventa lo scopo della terapia medica e infermieristica. Ed è prendendosi cura di queste fragili esistenze che Elvira ha ‘imparato’ cosa vuol dire essere neonatologa.
L’ha capito, ad esempio, imbattendosi in Alessandra, 800 grammi alla nascita, con una grave infezione intestinale che le ha distrutto l’intestino. «Non c’è più nulla da fare, lasciamola morire», dicono i chirurghi all’uscita dalla sala operatoria, ma i genitori supplicano di lasciarla attaccata al ventilatore per qualche giorno, per poterle stare vicini prima della fine. «Ho proposto un trattamento di comfort care con una ventilazione minima di supporto, antibiotico e morfina ogni tre ore, e siamo stati a guardare come andavano le cose. Alessandra era circondata da persone che le volevano molto bene e non davano nulla per scontato. Col passare del tempo la ferita comincia a guarire, lei si muove ogni giorno un po’ di più, fino a che – incredibile! – dico ai genitori che si può interrompere la ventilazione perché respira da sola. Sono tornati a casa contro ogni previsione, la bimba aveva un intestino lungo solo 10 centimetri, necessitava di nutrizione endovenosa e poteva prendere solo piccolissime quantità di latte per bocca. Ma era viva, e al suo primo compleanno è stata festa grande, con i genitori, l’infermiera Debbie che non l’ha mai abbandonata un momento e me. Prendendomi cura di lei, è diventato più chiaro che il mio lavoro è prima di tutto un dialogo col Mistero che parla attraverso la realtà di questi bimbi, così che noi possiamo trattarli al meglio dal punto di vista medico».
Un’altra lezione è venuta da Nilah, 406 grammi alla nascita, una vita su cui nessuno osava scommettere. «Prendendomene cura, mi sono affezionata a lei e ai suoi genitori al punto che ho deciso di diventare la sua ’dottoressa esclusiva’. Indipendentemente dai miei turni, ogni giorno passavo a visitarla. Dopo un mare di complicazioni e sei mesi di ospedale, smentendo qualsiasi previsione, è arrivato il giorno di tornare a casa. I genitori mi chiesero di essere la madrina di battesimo, e questo mi rese ancora più consapevole che la vita di Nilah non era nelle mie mani, e io potevo solo assecondare la volontà di un Altro. La cosa divenne ancora più chiara quando, dopo qualche mese, mi presi cura di Simona, la figlia di miei amici carissimi, nata prematura e molto malata. Nelle sei ore che ho passato a rianimarla, mi sono resa conto che tutto il mio impegno, la professionalità, l’esperienza che mettevo in campo, non avrebbero potuto modificare il corso della sua vita se non c’era un Altro che lo decideva. Dovevo dare tutto di me come medico, ma la sua vita era nelle mani di un Altro che si faceva conoscere attraverso il paziente stesso». Molti pensano che la comfort care comporti un dispendio eccessivo in termini di tempo, personale, farmaci e attrezzature rispetto al risultato finale, che quasi sempre è la morte del bimbo. «Ma la medicina non può essere gestita secondo criteri meramente economicistici – ribatte Elvira –.
La questione di fondo è che si può stare di fronte alla vita e alla morte solo riconoscendo che hanno un senso e ultimamente non dipendono dall’uomo. E se si è consapevoli che il primo bisogno di un bimbo è quello di sentirsi accolto, bisogna facilitare il contatto fisico con i genitori. Qui in America è molto accesa la polemica tra pro life e pro choice, ma si rischia una contrapposizione meramente ideologica. Io disapprovo l’aborto, lo considero un crimine. Ma non voglio combattere guerre, offro alle donne un’alternativa con la comfort care. E accade che sempre più mamme che hanno dubbi sulla scelta da fare, quando sanno di questa possibilità la chiedano per sé e i propri figli. Capiscono che è qualcosa di bello, e la bellezza ha una capacità di attrazione più forte di tante polemiche. Si dice che quando nasce un bambino con problemi e destinato ad una breve esistenza, le madri vengano prese dallo sconforto, ma le assicuro che il sentimento prevalente è la gioia di vederlo nascere e di averlo con sé, anche per un tempo breve. Allora si assiste alla vittoria della bellezza sul limite, perché la vita, qualsiasi vita, è esigenza di felicità. E il momento della nascita è quello in cui ciò è più evidente».
L’ultima conferma è arrivata pochi giorni fa, quando Elvira si è occupata di Milagros, che i genitori hanno fatto nascere anche dopo una diagnosi infausta: trisomia 18 e grave cardiopatia. «Le hanno messo un vestitino elegante, è stata battezzata dal cappellano dell’ospedale, poi li abbiamo lasciati soli – lei, la mamma e il papà – nella loro camera. E quando è spirata, la madre mi ha confidato: ’Sa dottoressa, è stato proprio bello, mi ha sorriso per tutto il tempo, abbiamo passato sei ore di felicità con la nostra bimba, una felicità breve ma così intensa...». Quando accadono fatti come questi, Elvira capisce che valeva la pena alzare la mano davanti ai suoi colleghi, quel giorno del 2006, per dire che c’è una possibilità diversa dall’aborto. Anche per vivere solo sei ore, come Milagros.
di Giorgio Paolucci