26/01/2014

Ora ci vogliono pure far credere che l’utero in affitto è una pratica umanitaria

Negli anni Sessanta Kenneth Boulding, un economista, propose di risolvere il problema della sovrappopolazione attraverso un sistema di licenze per la procreazione: ogni donna avrebbe ricevuto un certificato che l’autorizzava ad avere uno o più figli (a seconda della politica che si pensava di adottare). Ma la donna avrebbe anche potuto decidere di rivendere a terzi quel certificato, ovvero monetizzarlo, dando vita di fatto a un mercato globalizzato di permessi di procreazione in cui i più ricchi e desiderosi di avere figli avrebbero potuto comprare al prezzo corrente — si immagina altissimo — la possibilità di avere bambini da coloro che si trovavano in condizioni disagiate o comunque che sceglievano di rinunciare alla possibilità di avere un bambino ottenendo in cambio una contropartita economica.

Allora la proposta poteva sembrare fantascienza ma oggi la realtà non è poi tanto distante da come Boulding l’aveva immaginata. Grazie alle nuove tecnologie nel campo della comunicazione difatti quella che viene definita la maternità in affitto sta diventando sempre più un business globalizzato: chiunque oggi può accedere all’offerta di maternità surrogata proveniente da qualunque parte del globo. Anzi, più remota è la provenienza della potenziale madre surrogata — in qualche Paese del terzo mondo o in uno in via di sviluppo — e meno costoso sarà l’onere d’“affitto”. Ma questi “scambi”, come era facile prevedere, sono sempre a senso unico: non sono infatti indigenti e sterili coppie indiane che volano a San Francisco alla disperata ricerca di un adolescente adatto a “covare” i propri embrioni. Ma è vero il contrario. Sono infatti i benestanti che non rinunciano a sfruttare l’offerta di una prestazione di gravidanza da parte di disperati alla ricerca di soldi “facili”.

Eppure coloro che sostengono la legalizzazione di questa pratica si smarcano dalle critiche sul rischio di sfruttamento classista che questa pratica di fatto genera, e avanzano un argomento che neppure Boulding avrebbe potuto prevedere: le madri surrogate sarebbero infatti indotte a compiere questo gesto (ci dicono) per puro altruismo. «Essere una madre surrogata è come donare un organo a qualcuno», dice Jennifer, una delle madri surrogate intervistate da «Newsweek», è «una gioia vedere la felicità dipinta sul volto di queste coppie». E Amber di trent’anni confessa: «Cosa c’è di più significativo che donare una vita a chi la desidera e non può averla?». Infine Boersma casalinga e già madre di due bambini di 4 e 6 anni: «Alcune persone possono desiderare una carriera di successo, ma questo per me non significa niente, io voglio veramente fare la differenza per qualcun altro». Insomma quello che in apparenza spingerebbe queste donne a farsi carico di una gravidanza per conto terzi — e a favore di totali sconosciuti — sarebbe la gratificazione che deriva da un gratuito atto di bontà.

Le madri surrogate sarebbero insomma, secondo questa tesi, la prova che l’idea che questa società contemporanea sia malata di individualismo, edonismo e capace di esprimere solo desideri materiali è del tutto campata in aria.

Ma se tutto questo è vero allora ci si domanda perché mai Leslie Morgan Steiner — autrice del libro pro-surrogacy dal titolo The Baby Chase: How Surrogacy is Transforming the American Family — su un articolo apparso sul «New York Post» afferma che legalizzare la maternità surrogata a pagamento nello Stato di New York permetterebbe anche di rendere la pratica meno costosa, perché ora solo i ricchi se lo possono permettere andando a cercare il servizio in quegli Stati dove la pratica è legale. Insomma occorrerebbero, secondo la Steiner, molte più generose mamme pro tempore perché, si sa, un mercato liberalizzato è molto più competitivo e porta i prezzi a scendere.

Queste ragazze, va infatti detto, percepiscono un centinaio di migliaia di dollari per le loro prestazioni. Ma chi pensasse che quello dell’accessibilità economica sia l’unico argomento della Steiner a sostegno dell’utero in affitto si sbaglia. Ecco infatti che l’autrice conclude il suo pezzo con un capolavoro di retorica che ne palesa — forse involontariamente — il vero movente ideologico: la maternità surrogata dovrebbe essere legalizzata per una sola ragione, le madri surrogate credono in una sola e semplice verità: che chiunque voglia un bambino debba avere il diritto d’averlo.

Altro che bontà e filantropica dedizione insomma. Qui si tratta di una battaglia per difendere quella che sembra essere l’unica vera sacralità riconosciuta dall’umanità moderna: quella che ogni desiderio individuale (o di coppia va da sé) debba essere immediatamente soddisfatto, perché solo appagando ogni nostro piacere, voglia o fantasia potremmo finalmente ottenere la felicità che tanto bramiamo. Per la società del benessere che vive di consumo perpetuo l’unica immoralità è la rinuncia, la rinuncia è il vero peccato, anzi come dicono molto più laicamente negli States, è roba da looser, da perdenti.

Cristian Martini Grimaldi

Fonte: Libertà e Persona

 

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