“Today is a tragic day for marriage and our Nation”: questa è la prima dichiarazione del cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York, e del presidente del subcomitato dell’episcopato per la promozione e la difesa del matrimonio, monsignor Salvatore Joseph Cordileone, arcivescovo di San Francisco, dopo che, con una prima sentenza, la Corte Suprema americana ha dichiarato l’incostituzionalità del Defense of Marriage Act (Doma), la sentenza dove si afferma che “la parola matrimonio significa solamente unione legale tra un uomo e una donna come marito e moglie, e la parola sposo o sposa si riferisce solamente a una persona del sesso opposto che è marito o moglie”. Gli alti prelati aggiungono che la sentenza di incostituzionalità del Doma dà luogo a “una profonda ingiustizia”, che la decisione dei giudici “è sbagliata” ed infine che il Governo federale “dovrebbe rispettare la verità che il matrimonio è l’unione tra un uomo e una donna”.
Non intendo soffermarmi troppo sull’etimologia della parola matrimonio, giusto per non alimentare polemiche su chi crede che sia un pretesto parlare di etimologia per crearsi un alibi e negare questa parola alle coppie omosessuali. Tuttavia un piccolo cenno mi sia consentito perché non lo ritengo di secondaria importanza ed evidentemente non lo ritiene neanche buona parte degli omosessuali, considerata la coriacea insistenza con la quale intendono imporlo alla pubblica opinione. Eppure, dietro un termine come questo – matrimonio – esiste, e non a caso, una storia millenaria che ha resistito indenne ai più profondi sconvolgimenti culturali, modernismi, riforme, controriforme, rivoluzioni.
Chi non vuol credere neanche a questo, provi a dare atto che dietro ad ogni parola o neologismo così longevo esista uno sforzo mentale formidabile, che si esplicita appieno solo dopo anni ed anni, a volte millenni, nella sua vera e mirabile genialità. Ed ecco il matrimonio: la derivazione riconosciuta più usuale è mater munus (compito della madre), il dovere della madre come genitrice, ma anche come colei che cura gli affari interni alla “familia” e quindi non propriamente il significato che intendiamo oggi. Già nell’antica Roma, pur non riconoscendo alcuna autonomia alla volontà degli sposi, il matrimonio era considerato un’istituzione fondata su quel semplice diritto naturale del genere umano di unione tra uomo e donna, teso alla procreazione e a garantire le generazioni. Con il Cristianesimo diverrà sacramento, sacro ed indissolubile e ce lo ricorda bene il Vangelo di Matteo “Ciò che Dio congiunge, l’uomo non separi”. Nell’Evo Medio il matrimonio entrò nel diritto canonico e divenne una cerimonia religiosa nella quale il sacerdote, dopo aver accertato l’assenza di rapporti di consanguineità, accertava negli sposi l’esistenza della libera volontà di contrarre matrimonio. Con il Concilio di Trento, anno 1563, la Chiesa sancì solennemente la natura sacramentale del matrimonio, condannando le dottrine protestanti che l’avevano negata. In Italia, il matrimonio civile (unico riconosciuto dallo Stato) venne introdotto nel Codice del 1865; i Patti Lateranensi, nel 1929, invece, riconobbero effetti civili ai matrimoni celebrati con rito cattolico. Tuttavia nei secoli, pur nella diversità del significato canonico odierno e pur nelle diverse finalità, la condizione minima di un matrimonio è stata la presenza di un uomo ed una donna. Il dibattito potrà pure protrarsi in eterno tra giuristi, antropologi, sociologi, psicologi e chi più ne ha più ne metta: non c’è nulla da dibattere, perché tutto è molto semplice e naturale. In una buona parte del mondo gay prolifica quell’ostinazione di voler chiamare matrimonio l’unione tra due persone di egual sesso, con l’intenzione di voler scardinare, ora e senza compromessi, una condizione mentale che è diffusa nella maggior parte delle persone che vivono su questo mondo.
Perché dunque scardinare ciò che è normale? Non ha senso ed acquisisce, agli occhi di molti, un bizzarro e direi fastidioso modus operandi privo di ragione, intesa quest’ultima come la facoltà per mezzo della quale si esercita il pensiero. Altra riflessione si pone in un livello diverso e meno preso in considerazione: i coniugi eterosessuali, proprio perché potranno generare figli avranno maggiori oneri, da cui verosimilmente la società trarrà un beneficio futuro. Gli omosessuali, invece, non avendo prole per definizione – e lasciamo perdere le adozioni gay – hanno per propria natura meno doveri e conseguentemente meno diritti, ovviamente in qualità di famiglia e non come persona singola. Potremmo introdurre il concetto di giustizia commutativa ed anche distributiva, quest’ultima, ad esempio, basata sull’apporto che ciascuno dà al bene comune e allo sviluppo della società, inteso anche come procreazione ed educazione dei figli. Infine, la professoressa Lucetta Scaraffia ci ricorda, in un articolo uscito sull’Osservatore Romano, “un’altra affermazione non fondata: che il matrimonio faccia parte dei diritti umani, mettendo in secondo piano che esso è primariamente un’istituzione sociale e antropologica che richiede delle condizioni”. E proprio l’assenza di queste primarie condizioni mi portano ad asserire che ogni volta si utilizzerà la parola matrimonio per le coppie omosessuali, non potremo parlare di nessuna vittoria della libertà o conquista di civiltà, come sentiamo spesso ripetere: questo non c’entra proprio niente.
di Enrico Verrazzani