La maternità non è sempre un percorso tutto rose e fiori. Tanto più se, per anni, un figlio non arriva o se la madre ha la sventura di perderlo dopo qualche settimana di gestazione. La maternità è però un percorso difficile, in particolare quando la donna deve confrontarsi con il resto del mondo, familiari e marito compresi, che non è in grado condividere la totalità delle emozioni e percezioni di quella condizione o di quell’aspirazione.
La giornalista e scrittrice napoletana Livia Carandente ne ha parlato in due libri autobiografici, scritti al presente, a metà tra il romanzo e il diario. Dopo Quanti figli hai? (Tau Editrice, 2019), è uscito Ancora non hai figli? (Tau Editrice, 2021). Il motivo conduttore è il medesimo in entrambe le opere, con la differenza che nel romanzo appena pubblicato il registro introspettivo è più accentuato. L’ironia pungente e sottile del primo libro è sempre presente ma non mancano le digressioni sui drammi psicologici che una futura madre deve affrontare: a partire dal naturale e umano senso di inadeguatezza proprio e del mondo circostante. La nascita di un figlio, se ci pensiamo, è una cosa serissima perché riguarda una vita che viene al mondo. Impossibile, però, non accogliere una nuova vita con allegria e tenerezza: sarà allora necessario dare il giusto peso a tutte le cose, mettersi in gioco, mandare al macero tutte le certezze fino ad allora maturate e vivere la nuova condizione, giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, senza preconcetti.
È con questo spirito che l’autrice affronta il suo desiderio di maternità, trovandosi dinnanzi gli ostacoli che troverebbe qualunque altra donna: il marito lento a capire e ad ascoltare, i luoghi comuni della gente sulla maternità, le gaffe e la superficialità di chi vive tutto da lontano, dall’esterno.
Una coppia che non riesce ad avere figli, poi, dovrà affrontare ostacoli supplementari, i tribunali, le complicazioni burocratiche dell’adozione, il dilemma etico tra fecondazione artificiale e metodi naturali per la fertilità. Il grande dibattito bioetico di questi anni smette di essere pura accademia e diventa oggetto del quotidiano di una coppia. Allora le opzioni pro life si faranno più credibili e convinte. Livia Carandente entra nel merito con la sua opera seconda, quando, confrontandosi con l’esperienza di altre donne, dice la sua sull’aborto eugenetico. Può una madre sopprimere nel suo grembo un figlio solo perché concepito con sindrome di Down? Ciò può avvenire, se nessuno le dice che quel bimbo «avrebbe allietato i suoi giorni, nonostante la fatica. Che avrebbe ricevuto più amore che preoccupazioni». L’istinto materno, inoltre, fa percepire ulteriori paradossi: «Se picchi una donna, la maltratti, la percuoti, la sfregi: sei (giustamente) un criminale. Se picchi una donna incinta, la maltratti, la percuoti, la sfregi: sei (giustamente) un doppio criminale. Se una donna incinta maltratta la sua creatura in corpo, la percuote, la sfregia, quindi la abortisce: esercita un suo diritto».
Tanti gli spunti e i messaggi che emergono dal libro di Livia Carandente. Ce n’è uno, però, che spicca sugli altri: un figlio è un dono e chi non ha potuto averlo per anni, lo apprezza e lo comprende forse più degli altri. Scrive l’autrice: «E ora, questa vita dentro la mia vita, mi imbarazza quasi. Perché io? Lo dicevo prima quando non c’era e lo chiedo adesso che c’è. Siamo strani noi umani. Stiamo sempre a domandare, interrogare, ipotizzare situazioni in cui volerci inserire. Ma se la smettessimo e semplicemente accogliessimo ciò che riceviamo. Tutto è gratuito. [..] Che motore che è l’amore. Che bomba!».