Gli aborti nel nostro Paese sono, nel complesso, drammaticamente in crescita. Eppure la “Relazione contenente i dati 2021 sull’attuazione della L.194/78 che stabilisce norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidanza” rileva che «nel 2021 sono state notificate 63.653 IVG» e propaganda questo dato come incoraggiante circa la diminuzione degli aborti. I numeri più alti in valore assoluto si registrano in Lombardia (10.747 aborti) e in Campania (5.810). Tuttavia la realtà del fenomeno è un’altra. Innanzitutto bisogna subito precisare che non c’è nulla di cui rallegrarsi se si considera che, col beneplacito dello Stato, a circa 64.000 bambini (tanti quanti gli abitanti di Pomezia o di Cosenza) nel solo 2021 è stato impedito di nascere. In secondo luogo è doveroso osservare che, se i numeri raccontano una «diminuzione del fenomeno (- 4,2% rispetto al 2020)», tale dato è relativo ai soli aborti chirurgici e farmacologici, ma non alla cosiddetta "contraccezione d'emergenza" che però è abortiva a tutti gli effetti.
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Vi è, infatti, un aumento costante della sedicente ‘contraccezione d’emergenza’ (che contraccezione non è, dal momento che le pillole agiscono anche dopo un eventuale concepimento, e dunque a livello antinidatorio, impedendo a un essere umano di pochi giorni di avere il nutrimento necessario per continuare a crescere) e, per quanto riguarda quello farmacologico, da Ru486 con ricadute ben più gravi dell’aborto chirurgico sul piano della salute fisica e psicologica della madre. Nel caso di assunzione della Ru486 tutta la responsabilità dell’atto ricade sulla madre e, una volta assunta la pillola, non può più ripensarci e tornare indietro, per cui si trova sola ad assistere impotente all’espulsione del proprio figlio in maniera traumatica.
In effetti «i tassi di abortività più elevati restano nelle donne di età compresa tra i 25 e i 34 anni» – rileva ancora la relazione ministeriale – e si riscontrano nelle donne straniere (in valore assoluto 12,0 per 1.000 nel 2020), laddove il corrispettivo di quelle italiane è di 5,0 per 1.000 relativamente allo stesso anno.
Nella relazione si legge poi che «sono in diminuzione i tempi di attesa, pur persistendo una non trascurabile variabilità fra le Regioni», sfatando così la vulgata diffusa secondo cui si faticherebbe a trovare medici non obiettori. I medici obiettori sono infatti il 63,6% dei ginecologi, il 40,5% degli anestesisti e il 32,8% del personale non medico.
Del tutto assenti nella Relazione ministeriale i numeri relativi all’impegno dello Stato per contribuire al «superamento delle cause» che spingono una mamma ad abortire. Viene infatti puntualmente disatteso l’art. 2 della stessa legge 194, iniqua soprattutto nella misura in cui non tutela il diritto alla vita del più debole, quale è il bimbo non ancora nato nel grembo materno. Non ci sono dati che raccontino il ripensamento di tante mamme, quel tornare sui propri passi grazie in particolare al volontariato di quanti, nel silenzio e nell’ostilità culturale, si adoperano con ogni mezzo nei Centri di Aiuto alla Vita per supportare concretamente la madre in difficoltà e la sua famiglia a rimuovere insieme le cause sociali ed economiche che la spingono all’aborto piuttosto che alla naturale accoglienza di una nuova vita.
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Molto probabilmente nel 2021, tra le altre, non avrebbero ricorso all’aborto 1.707 giovanissime mamme di età inferiore ai 18 anni, se vi fosse nel nostro Paese una volontà reale di “tutela sociale della maternità”, ossia una concreta presa in carico delle madri, dei figli nel loro grembo e delle loro famiglie, al cui abbandono sopperisce il volontariato con autentica e talvolta eroica carità. Un cambio di rotta comincia da orecchie attente all’ascolto del piccolo cuore del concepito che batte più forte di quello della sua mamma già alla terza settimana e da occhi pieni di stupore per quelle prime immagini che l’ecografia restituisce all’intelligenza per riconoscere che quel piccolo essere umano è “uno di noi” sin dal concepimento nel grembo materno.