08/01/2014

Riprende la campagna sull’allarme omofobia

Ai senatori viene inviato un articolo che parla della morte di un ragazzo, ma le cause non sarebbero legate alla sua omosessualità. Così, però, si fa pressione per fare loro approvare il ddl Scalfarotto

Riprende il dibattito sulla legge sull’omofobia; riprende la mobilitazione delle Sentinelle in piedi, della Manif Pour Tous Italia e di tutti coloro che intravedono nel progetto di legge del renziano Ivan Scalfarotto il tentativo di introdurre nel nostro ordinamento il primo psico-reato e, nello stesso tempo, di preparare la strada al matrimonio gay (con relativa adozione e produzione di figli).

Riprende, anche la campagna di stampa ossessiva sulla cosiddetta “omofobia”, parola ormai sdoganata, ma, a tutti gli effetti, orwelliana (tesa cioè a bollare il dissenziente, senza neppure possibilità di dialogo e confronto).

Proprio ieri, infatti, sulla posta elettronica dei senatori, è comparsa una mail riportante un link, ad un articolo di Repubblica, e una didascalia: «Non si è suicidato, è stato ucciso dall’omofobia. Antonia Di Costanzo, mamma di un ragazzo omosessuale». Mail scritta allo scopo di “intimidire”, o quantomeno mettere in difficoltà i senatori: chi non si sentirebbe in colpa se gli dicessero che, per causa sua, tante persone si suicidano? Che, solo che lui faccia una firmetta sotto la legge Scalfarotto, tante persone eviteranno di suicidarsi?

Questo l’articolo linkato, datato 6 gennaio: «Ha scelto di suicidarsi lanciandosi dal settimo piano di un palazzo. Proprio come aveva fatto, due mesi fa, un suo coetaneo. Anche lui omosessuale nella capitale. Come tanti, troppi, prima di lui. Un ragazzo omosessuale di 21 anni si è tolto la vita ieri sera in via Casilina, nel quartiere di Torpignattara. Secondo le prime informazioni il giovane avrebbe provato il suicidio una prima volta pochi minuti prima di lanciarsi nel vuoto. Ma era stato fermato dalla madre. I carabinieri che indagano sul caso non escludono alcuna ipotesi, neanche quella di un disagio legato alla sua omosessualità. Si parla di un posto su Facebook in cui attaccava: “Perché insultare un omosessuale non è reato?”».

Repubblica, come si vede, non ha dubbi: dà la notizia, e propone subito, ben più in fretta della magistratura, una e una sola spiegazione. Tutto è già chiaro: trattasi, sempre e comunque, di suicidio post-omofobia. Lo si fa e lo si dice, ormai per prassi, dopo ogni suicidio di un omosessuale. Mentre, per esempio, dopo il suicidio di un ragazzo che soffre per il divorzio dei genitori (il che accade assai più spesso), nessuno osa mai neppure interrogarsi sul problema. Creare una società in cui i riflessi di chi scrive e di chi pensa sono automatici, pavloviani, è quanto di più angosciante si possa immaginare.

Eppure il giorno precedente, il Corriere della Sera di Roma aveva dato la stessa notizia, ma in ben altro modo: «A.R., commesso in un noto store del centro, frequentatore di iniziative delle associazioni omosessuali compreso il Gay Pride e conosciuto anche dai responsabili di vari circoli, è morto sul colpo sul marciapiede, davanti ai negozi affollati, dopo aver abbattuto i rami di un albero. Sul caso indagano i carabinieri della compagnia Casilina: hanno ascoltato i genitori, il fratello gemello e la fidanzata, entrambi in casa con la madre quando il ragazzo si è tolto la vita. Da un anno, forse dopo una delusione sentimentale, il ventenne era in cura per problemi di depressione aggravati anche dall’abuso di alcol e stupefacenti ma la sua omosessualità – confermano dal circolo Mario Mieli – era stata tranquillamente accettata dai familiari. L’aveva detto anche alla nonna. I carabinieri ritengono che il giovane non avesse problemi perché gay nemmeno fuori di casa ma le indagini proseguono. Anche perché il ragazzo non ha lasciato biglietti d’addio ma solo quei post su Facebook dove si chiedeva perché insultare un omosessuale non fosse ancora considerato un reato…».

Alla mail della signora e a tutti i senatori ha risposto, con signorilità e buon senso, dopo opportune indagini, il senatore Carlo Giovanardi: «Cara Signora, ho ricevuto la sua mail che riporta la notizia apparsa il 6 gennaio u.s. su Repubblica.it – cronaca di Roma, relativa ad un giovane che si sarebbe suicidato a causa della sua omosessualità. Non avendo nessuna agenzia e nessun altro giornale avanzato questa ipotesi, ho potuto verificare che la notizia è destituita di ogni fondamento, non avendo nulla a che fare l’orientamento sessuale con le cause del suicidio. Chi ripetutamente enfatizza falsamente tragici episodi attribuendoli a non si sa quale omofobia, alimenta un clima di scontro che ostacola un sereno e civile confronto fondato sulla tolleranza ed il rispetto delle reciproche convinzioni. Cordiali saluti, Carlo Giovanardi».

Cosa aggiungere, alla garbata e logica risposta del senatore del Nuovo Centrodestra? Solo che si tratta dell’ennesimo tentativo di forzare l’opinione pubblica e la libertà dei parlamentari, con un vero e proprio ricatto morale, basato su una falsificazione.

Proprio il deputato Ivan Scalfarotto, nel difendere il suo progetto di legge alla Camera nell’estate scorsa, aveva citato, come argomento ad effetto e di sicuro impatto emotivo, il celebre presunto suicidio, nel 1998, di Matthew Shepard (divenuto una icona del mondo gay).

Di lui si è detto per tanti anni, appunto, che fu vittima di omofobia, finché un giornalista omosessuale americano, Stephen Jimenez, appassionatosi al caso, ha dimostrato, in The Book of Matt, il povero Shepard «era seriamente coinvolto nel torbido ambiente della droga che girava a Laramie, al punto da arrivare lui stesso a improvvisarsi occasionale spacciatore»; di più, dalle ricerche «emerge, soprattutto, il fatto che – al contrario della versione ufficiale di quanto accaduto – egli conoscesse i suoi assassini, con i quali aveva avuto persino rapporti sessuali». «Nel libro – continua Gianfranco Amato, recensendo il volume citato – Jimenez arriva a ricostruire anche quello che egli ritiene sia stato il vero movente dell’omicidio: Shepard era in possesso di una scorta di metanfetamine che i suoi assassini volevano sottrargli. Uno degli omicidi, Aaron McKinney, era, peraltro, da cinque giorni sotto effetto di anfetamine, e per questo motivo in quel tipico stato di eccitazione maniacale che determina un comportamento violento e aggressivo».

di Francesco Agnoli

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