Pronostici ancora una volta smentiti. Il Nobel per la Letteratura 2022, che sulla carta doveva essere una partita a due – tra Michel Houellebecq e Salman Rushdie -, alla fine è stato assegnato ad un altro autore. Anzi, ad un’autrice che, con l’autore di Sottomissione, condivide il passaporto: si tratta di Annie Ernaux. Classe 1940, già insignita di numerosi riconoscimenti (come i premi Marguerite Duras, François Mauriac, il Prix de la langue française e il Premio Strega europeo 2016), l’autrice francese è stata premiata dall’Accademia Svedese in quanto la sua scrittura, è stato valutato, si caratterizza per essere «un'arma affilata per sezionare la verità».
Ora, lungi da noi discutere la statura letteraria – senz’altro notevole, per carità - di Ernaux. Tuttavia, non si può non osservare come questo Nobel paia condizionato dai canoni della cultura dominante. Infatti, la vincitrice del premio – come non ha mancato subito di rilevare, per esempio, Vanity Fair – non è solo «una donna, un'insegnante, una femminista», ma anche un’autrice che, nelle sue opere, si è focalizzata su determinati temi. Quali? Su tutti: il rapporto col sesso, la maternità e l’aborto. Quest’ultimo argomento, per quanto Ernaux si sia a ben vedere occupata pure di altro (la figura paterna, il lutto e la politica), costituisce un elemento centrale nella sua produzione.
Tanto è vero che, come i lettori più attenti di questo sito sicuramente ricorderanno, lo scorso anno, in una competizione cinematografica di prestigio internazionale – quella incantevole e celebratissima di Venezia – a trionfare era stato il film francese L’Evénement della quasi esordiente Audrey Diwan. Ebbene, quella pellicola altro non era che una trasposizione cinematografica dell’omonimo libro di Annie Ernaux, basata nello specifico sulle dodici settimane in cui la futura scrittrice, decenni addietro, aveva cercato di abortire, per non dover abbandonare l’università.
Come più osservatori avevano notato con riferimento al film, la trama dello stesso e del libro da cui è tratto, può essere considerato una sorta di manifesto dell’abortismo, essendo interamente incentrato sui dubbi e sui tormenti della madre. Piccolo problema: il figlio concepito, totalmente lasciato ai margini benché senza dubbio la vera e più grande vittima di tutta vicenda.
Tanto che anche Avvenire, rispetto a L’Evénement, non aveva potuto fare a meno di esprimere un giudizio critico parlando della «cruda e disperata rappresentazione di una pervicace negazione della vita. Che trova il proprio abisso nella durezza della scena di un aborto clandestino. Come se, alla fine, debba sempre prevalere una letale ideologia fintamente progressista, anche a spese dell’arte». Parole che risulta difficile non sottoscrivere e che, tornando ad oggi, restano attuali. Nel senso che la grandiosa onorificenza data ad Annie Ernaux, in fondo, pare aver il sapore dell’ennesimo tributo assegnato dalla cultura dominante a sé stessa, in un reciproco premiarsi nel quale non c’è spazio non solo per idee diverse ma neppure per temi diversi, che non siano gli stessi riconducibili ai cosiddetti diritti civili.
Si badi, questa non è naturalmente una esclusiva della letteratura: anche il cinema, infatti, perfino quello per bambini, da anni paga il suo obolo al politicamente corretto in praticamente ogni sua opera. Ma questa non è una buona ragione per non trovare meno scontato e meno ripetitivo un Nobel per la Letteratura che, più che Houellebecq e Rushdie, sembra lasciare sullo sfondo, dimenticato e nella penombra, un altro soggetto: il figlio non ancora nato. Lo stesso di cui era già quasi impossibile parlare (senza fare scandalo, s’intende) e che sembra essere celebrato, ormai, solo in quanto eliminabile in applicazione a ciò che ci si ostina, contro l’evidenza biologica, a chiamare diritto.