Nel Belpaese, si sa, le tradizioni sono importanti. Qualcuna, minacciata dall’avanzata inesorabile degli anni, rischia di scomparire. Altre invece purtroppo non muoiono mai, come il festival di Sanremo.
Forse saremo i soli ad essersene accorti ma guardandolo ogni anno, più per curiosità e folclore che per altro, la principale rassegna della musica italiana da molto tempo ormai sembra produrre più polemiche e scandali che nuovi talenti e nuovi brani da scoprire.
Ogni anno ce n’è una nuova e tutti, dai critici musicali alle testate nazionali in prima pagina, sono pronti a commentare in diretta ciò che accade: come si veste il conduttore, quanto fanno ridere le battute dell’ospite d’onore, chi è stato invitato e chi invece è rimasto escluso, quanto è corto il vestito della soubrette accompagnatrice. Come se il festival di Sanremo fosse un grande carrozzone dove far salire tutti quanti, parlare di tutto e tutti e poi, alla fine, in secondo piano, ascoltare anche qualche canzone. Nelle settimane a venire, gli strascichi di polemiche e commenti a volte imbarazzanti.
Saremo sempre i soli a crederlo ma stentiamo a ricordare un vincitore che sia passato alla storia dopo essersi aggiudicato la vittoria del festival. Piuttosto ci ricordiamo benissimo tutti i cattivi esempi in salsa trash-popolare che si sono avvicendati sul palco dell’Ariston. Ultimo il transgender austriaco Tom Neuwirth, in arte Conchita Wurst, eroina LGBT esibitosi in abito super scollato, corpetto chiaro e gonna lunga blu, con la barba e i capelli più corti rispetto a come ci aveva abituato in passato. È stato a dir poco imbarazzante vedere l’altra sera Carlo Conti prodursi in un faticosissimo slalom senza mai sapere come rivolgersi al cantante, se con il femminile o con il maschile.
“Che barba” verrebbe da dire, ma non quella di Conchita, che barba intesa come noia. La noia che il popolo italiano deve subire ogni anno, imboccato davanti al teleschermo con la scusa dei diritti civili e del politicamente corretto, che barba dover scorrere i canali e guardare questi tristi spettacoli. Tristi come gli sceneggiatori che, ben immaginando le critiche a cui andava incontro, hanno pensato bene di invitare ad inizio festival anche una famiglia numerosa sul palco, pensando così di equilibrare l’ago della bilancia. “Se da una parte sponsorizziamo il gender, dall’altra portiamo in mondovisione una famiglia cattolica”, avranno pensato. Come se la famiglia numerosa fosse uno spettacolo di quelli che si possono ammirare allo zoo.
La verità che ci piace affermare, cara mamma Rai, è che la famiglia cattolica è la normalità che tu vuoi spacciarci come anormale, mentre un travestito con la barba, vestito da donna, che canta al festival della musica italiana non lo è.
Saremo politicamente scorretti? Sì, e se difendere la famiglia e la vita significa esserlo, allora siamo fieri di ostentarlo.
E pensiamo di non essere soli. La gente è stufa.
Stufa di dover sentire settimane di commenti sulla farfallina di Belen Rodriguez, di sapere quante centinaia di migliaia di euro abbia guadagnato in dieci minuti di apparizione la guest star americana invitata. Stufa di sentire sempre la solita solfa e pochi minuti di canzoni, stufa di vedere una donna barbuta dirci quanto è importante “essere chi siamo”.
Noi lo sappiamo benissimo chi siamo: fin quando la normalità non sarà rimessa al centro del festival, noi non siamo Sanremo, noi non guardiamo Sanremo.
Luca Colavolpe Severi