«L’aborto recide un legame profondo e ancestrale, quello della donna con la vita. La donna sa di essere “grembo della vita”, e quando scopre la gravidanza è già madre». Intervista a Claudia Navarini
La Sindrome Post Aborto (PAS) è studiata già da molto tempo negli Stati Uniti. Si afferma che il 62% delle donne che hanno effettuato aborti volontari (le c.d. IVG) soffre di questa sindrome con conseguenze psico-fisiche anche gravi e, ciò, mette in dubbio che la legge per l’aborto abbia come scopo quello di salvaguardare la salute mentale delle donne.
Claudia Navarini, martedì prossimo 15 ottobre (dalle ore 19 alle 20.30), tratterà questo tema nell’ambito del corso organizzato dal Centro di Aiuto alla Vita “Roma Palatino Onlus” “Quattro serate per la Vita” (Basilica di Santa Anastasia, piazza Santa Anastasia 1, Roma). La professoressa Navarini, docente di Bioetica e filosofia morale presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Europea di Roma, è autrice di numerosi saggi scientifici, gli ultimi dei quali, pubblicati entrambi nel 2012 per Editori Riuniti university press, dedicati ad Autonomia e immaginazione morale. Etica, bioetica, neuroscienze ed Etica della procreazione umana.
Professoressa, nella sua prossima presentazione al CAV di Roma “Palatino” parlerà del delicato tema “Sindrome post-aborto: origine e cura”, può anticiparcene alcuni contenuti?
Il punto di partenza è una visione artificiosa e astratta dell’autonomia della donna. Si parla dell’aborto come di un atto di libertà femminile, che darebbe tutto sommato dei vantaggi alla donna alle prese con una maternità difficile o indesiderata. Ecco, numerosi studi provano che la donna, attraverso l’aborto, può solo peggiorare la sua situazione, e che le condizioni psicologiche nelle quali prende la decisione di interrompere la gravidanza sono molto spesso instabili. La donna è generalmente sottoposta a pressioni e paure che non la lasciano poi così “libera di decidere”, e che in numerosi casi le fanno addirittura percepire (erroneamente) l’aborto come una necessità. Non è paradossale? L’aborto, che è stato frequentemente spinto da movimenti di liberazione della donna, ha invece contribuito a schiavizzarla, a renderla vittima di se stessa. Adesso si cerca di liberare la donna dall’aborto.
Quali sono le più ricorrenti conseguenze psicologiche nel post aborto?
Quelle tipiche del Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD): il senso di colpa in primis, che si può dire non sia mai assente, in forma palese o nascosta. Poi il risentimento – fino a sentimenti di ostilità e di odio – per coloro che hanno contribuito alla scelta abortiva, con eventuali gravi ripercussioni sulle relazioni di coppia. Sono frequentemente presenti ansia, angoscia, tristezza, senso di vuoto. Ci sono infine forme di autopunizione, come il ricorso a dipendenze da alcool o da droghe, l’autolesionismo e la drastica perdita di autostima, i pensieri (talora i tentativi) di suicidio – spesso legati a date speciali, come l’anniversario dell’aborto o della data presunta del parto – , fino alla ripetizione dell’aborto stesso.
Si dice che l’aborto non solo privi un bambino della propria vita ma anche una madre di suo figlio e, finché si continuerà a negare l’esistenza della “sindrome post abortiva”, continuerà a privare la donna anche del suo lutto, impedendogli di elaborarlo. Cosa ne pensa?
In effetti la morte di un figlio, qualunque sia la sua età o il suo stato di salute, lascia inevitabilmente una ferita profonda e perenne nel cuore di una madre. Figuriamoci che cosa può accadere quando la responsabilità di questa morte è della madre stessa. La donna arriva a sentirsi “un mostro”, vorrebbe piangere il suo bambino mai nato, ma si sente indegna anche di fare questo; allora prova a rimuovere il problema e a dirsi che non è successo niente, o che non è stata colpa sua, ma la sua coscienza continua a condannarla. Ciò crea un circolo vizioso pericolosissimo. La donna deve riuscire a riconoscere con onestà il fatto accaduto, a soffrire per la perdita del suo bambino, e poi a perdonarsi davvero.
Non crede che la banalizzazione dell’aborto, della sessualità umana e della fecondazione artificiale stiano facendo venir meno i fondamenti stessi della riflessione sulla vita, sulla morte e sulla maternità?
Diceva la beata Teresa di Calcutta che “se una madre può uccidere il figlio, ciò significa che gli esseri umani hanno perso totalmente il rispetto per la vita e più facilmente possono uccidersi a vicenda”. Il nesso fra sessualità, amore e vita, prima di essere un argomento di fede, è un argomento di ragione. La sessualità umana contiene infatti in sé due grandi potenzialità: quella del dono totale di sé ad un altro, possibile fra un uomo e una donna che si scelgono e si amano per sempre arricchendosi della loro costitutiva differenza; e quella dell’apertura alla vita, che è una specie di “dono nel dono”, o di “amore dall’amore”. Infatti può scaturire, come un dono sovrabbondante, dall’unione dei due (che è già un dono). Pratiche come la contraccezione e la fecondazione artificiale spezzano questo nesso, separano la dimensione dell’unione da quella della procreazione, e così facendo condannano le persone ad un impoverimento dei loro rapporti e delle loro prospettive. Da ciò deriva un progressivo e devastante fraintendimento del valore della vita umana, che corrode le famiglie e la società intera. Per citare ancora la beata Teresa, “tutte le nazioni che non si oppongono a questo male quale è l’aborto, troveranno in seno a loro stesse una vita famigliare distrutta ed una nazione distrutta. […] La storia dimostrerà che sono sopravvissuti soltanto quei popoli che hanno proibito l’aborto”.
Lei ripete spesso nelle sue conferenze e libri che, per poter parlare in modo corretto di “sindrome da post aborto”, si deve preliminarmente partire dall’esatta definizione del significato complessivo del trauma abortivo. Può spiegarsi?
Come detto l’aborto recide un legame profondo e ancestrale, quello della donna con la vita. La donna sa di essere “grembo della vita”, e quando scopre la gravidanza è già madre. In lei è già cambiato tutto, perché prima ancora di esserne cosciente, il suo corpo e la sua psiche si sono adattati alla nuova dimensione: scambi ormonali intensissimi fra madre e embrione, micro-modificazioni corporee, predisposizione di strumenti a difesa della gravidanza in atto come lo straordinario “riconoscimento” del nuovo ospite (che pur avendo un patrimonio genetico diverso al 50% da quello materno non viene identificato come corpo estraneo e attaccato dagli anticorpi). La brusca e volontaria interruzione di questo delicato meccanismo è un evento molto violento, intuito dalla donna nella sua realtà più semplice e immediata: la morte del proprio bambino. Ed è quello che dicono infatti le donne che hanno un aborto spontaneo: “Ho perso il bambino”, non “Ho espulso il prodotto del concepimento” o “Ho interrotto la gravidanza”. Anzi, quando si sente dire da una donna “Ho avuto un’interruzione”, è certo che si è trattato di un aborto volontario, la cui realtà si cerca istintivamente di rimuovere anche nel linguaggio. Tante donne soffocano questa verità per anni, forse per sempre, ma quello che sappiamo della sindrome post aborto è che – come molte malattie ad insorgenza tardiva – potrebbe esplodere in qualsiasi momento, anche molti anni dopo l’aborto, magari a causa di un evento scatenante. Questa “possibilità di esplosione” non si può mai escludere.
Una delle caratteristiche principali della sindrome post abortiva, spiegano diversi autori, è la cosiddetta regressione, cioè la tendenza a rivivere l’esperienza passata, come forma di auto-punizione, con il continuo riemergere di stati ansiogeni, disordini alimentari e del sonno. Non contribuisce a questo, come vorrebbero gli esponenti pro choice, la criminalizzazione dell’aborto?
No, è la donna stessa che si colpevolizza, indipendentemente dalla condanna pubblica dell’aborto. Anche nei paesi in cui l’aborto supera il 50%, come l’Ucraina – dove sono stata di recente, constatando un livello molto alto di “accettazione sociale” della pratica – , queste manifestazioni sono chiaramente presenti, e anzi le donne che sentono parlare della sindrome post aborto appaiono come illuminate, in quanto riescono finalmente a dare una spiegazione e un nome a quello che provano magari da anni nel silenzio. E si accorgono di essere in tante a pensare la stessa cosa. Lavorare su questa consapevolezza, in ogni contesto, serve a dare speranza: quella che si riconosca in modo sempre più pervasivo che l’aborto è un crimine, le cui ripercussioni sulla donna sono naturali e logiche conseguenze.
di Giuseppe Brienza