Rimbalza in queste ore sul web (per esempio si può vedere la Stampa) la notizia di un ingegnere di Albavilla, in provincia di Cuneo, che è andato in Svizzera per il suicidio assistito. (Qui il Corriere, che ha ripreso un nostro comunicato stampa).
La cosa è avvenuta diversi giorni fa, perché la salma è rientrata in Italia giovedì scorso.
L’uomo non era malato terminale né disabile: soffriva di depressione e pare avesse scritto ai servizi sociali l’intenzione di farla finita.
La procura indaga per istigazione al suicidio, perché pare che un amico l’abbia accompagnato a Chiasso per prendere il treno per la Svizzera. Non è certo, però, che l’amico sapesse dell’intenzione dell’ingegnere di commettere suicidio.
Su questa vicenda si conoscono troppo pochi dettagli. Ci pare doverosa una riflessione, però.
Che un essere umano giunga all’estremo tanto da decidere il suicidio è triste e doloroso: in qualche modo se riteniamo di far parte di una “comunità umana” – che chiede di adempiere ai “doveri inderogabili di solidarietà sociale” (art.2 Cost.) – dovremmo in qualche modo sentirci coinvolti: chi giunge a tale determinazione è perché soffre di solitudine estrema, quindi è innanzi tutto la “comunità” che gli è mancata (parenti e amici, in primis, ma anche il tessuto sociale cui la persona appartiene e, in ultima istanza, la comunità-Stato di cui tutti facciamo parte).
Però, tra il determinare il suicidio e il metterlo in atto c’è una bella differenza. L’istinto di conservazione e il naturale attaccamento alla vita di solito prevalgono.
A meno che...
A meno che qualcuno non istighi direttamente o indirettamente la persona a perseverare nella volontà di suicidio, gli fornisca modi e maniere per mettere in atto il suicidio, o – addirittura – lo “assista” nel suicidio. Il che è un modo molto ipocrita di esprimersi: di fatto “l’assistente” è un omicida.
Diviene un fatto gravissimo che la legge o la “pubblicità”, la prassi, (come nel caso dell’ingegnere di Albavilla) “aiutino” una persona a realizzare il suicidio, piuttosto che offrirgli un’ancora di salvezza, un motivo per continuare a vivere.
I servizi sociali, nel caso dell’ingegnere, cosa gli hanno risposto?
Intanto, il dare risonanza a notizie come questa e – in genere – il dare risonanza alle notizie relative al suicidio può ingenerare il noto effetto Werther. O peggio può far assuefare l’opinione pubblica al fatto che “è normale” che chi non “sta bene” s’ammazzi.
Noi siamo determinati ad opporci a questa deriva mortifera. Non è “normale” il suicidio. Il suicidio assistito è un omicidio. La vita è un bene indisponibile e ha un valore inestimabile: non è vero che “la vita è mia e la termino quando voglio”: se passa questa convinzione, su questo mondo, resteremo davvero in pochi.
Redazione
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