“Io Tarzan, tu Jane: ancora possibile? Identità sessuale e gender” è il titolo del contributo di Massimo Gandolfini e Chiara Atzori, pubblicato dall’AGESC, che volentieri proponiamo ai nostri lettori.
Gandolfini è Neurochirurgo, direttore del Dipartimento Neuroscienze, Fondazione Poliambulanza; vicepresidente nazionale Associazione Scienza & Vita; Chiara Atzori è Dirigente medico specialista in Malattie Infettive presso un ospedale milanese; membro Associazione Scienza & Vita Milano.
Il tema dell’identità sessuale della persona umana è, oggi, fra i più dibattuti: da quando la cosiddetta “teoria di genere” è uscita dalla nicchia accademica ed ha invaso la scena giuridica internazionale, coinvolgendo intere società nazionali in un lavoro di ristrutturazione secondo schemi antropologici inediti, ogni giorno le varie agenzie mediatiche propongono dibattiti ed eventi ad hoc.
Nel grande caos che regna sul tema, a fronte di una sorta di “pensiero unico” che pretende di imporsi per via amministrativa, legislativa, mediatica, e secondo il quale l’identità umana deve essere “rifondata” a partire dalla sua struttura più profonda, affettiva – sessuale, è indispensabile fare chiarezza, partendo proprio dai termini e dalle parole utilizzate.
Si avverte il bisogno di proporre una sorta di “glossario del gender” che, dissipando la tanta confusione in atto, favorisca quella chiara conoscenza, che è indispensabile per affrontare una questione che pretende di imporre una radicale rielaborazione dell’umano che la storia ci ha consegnato, dall’ominide ai nostri giorni.
Possiamo partire dalla domanda di fondo: maschio o femmina si nasce o si sceglie di diventarlo?
Più in generale: che cosa è la persona umana? È una struttura dotata di una precisa identità sessuata (ontologicamente sessuata), oppure è un’entità astratta, modellabile in base al desiderio e alla libera scelta dell’orientamento sessuale di un soggetto? L’essere umano è sessuato, e da ciò deriva il proprio orientamento sessuale,
oppure è asessuato o pansessuale, ed è il desiderio che determina la scelta dell’orientamento?
Esistono i maschi e le femmine, oppure esistono individui LGBTQ?
Per rispondere in modo argomentato, non ideologico, razionale e ragionevole, è indispensabile partire dalla biologia umana.
Da quando esiste, l’umanità è sempre stata caratterizzata da un chiaro dimorfismo sessuale, maschio/femmina, il cui “determinante biologico” è rappresentato dal cromosoma Y: la sua presenza costruisce il maschio, la sua assenza realizza la femmina. All’Y è legata la sessuazione e l’intero corpo umano, cervello compreso (come ci hanno insegnato le moderne neuroscienze), è una struttura sessuata. Si deve, quindi, parlare di un patrimonio cromosomico/genetico (genotipo) che costituisce il progetto sulla base del quale viene strutturato tutto il corpo umano (fenotipo).
Certamente esistono condizioni in cui questa biologia fisiologica può essere alterata a vari livelli – dai geni, agli ormoni, ai recettori cellulari – delineando condizioni molto diverse fra loro, il cui denominatore comune è rappresentato dal discostarsi dal modello originale, configurando la purtroppo vasta area della patologia.
Questa è l’identità sessuale, il sesso maschile e femminile, ciascuno dei quali è portatore di differenze (dal latino “ferre”, portare) specifiche che – nella complementarietà che le caratterizza – definiscono la piena rappresentazione dell’umano conosciuto dai primordi ad oggi.
Il biblico “maschio e femmina li creò” sintetizza molto efficacemente questo concetto: l’umanità non è né maschile né femminile, ma è maschile e femminile insieme. La somma delle differenze realizza la pienezza dell’umano.
Facciamo un passo avanti: identità sessuale ed identità sessuata sono sinonimi e configurano il medesimo concetto?
La risposta è no, perché l’identità sessuata si struttura nell’interazione fra “natura” (il sesso biologico) ed ambiente biografico, in cui la persona si sviluppa e cresce.
Certamente la genetica non è acqua, e con essa si deve fare i conti; ma altrettanto l’epigenetica – cioè tutto ciò che sta al di fuori e che va oltre i geni – costituisce un’importante forza plasmante la personalità e l’identità del soggetto.
L’io, l’identità di sé, il sé è il punto d’incontro di due direttrici: la natura (con il suo genotipo e fenotipo) e la “cultura”, con quel variegato bagaglio di relazioni e condizionamenti parentali e sociali che delineano la “biografia” di ciascuno di noi.
L’integrazione di questi fattori, non scindibili fra loro – pena fratturarne l’identità – genera l’io.
Se è vero – come è vero – che l’identità di sé, con la sua componente d’identità sessuata, si costruisce a partire dalla differenza sessuale biologica, questa è immersa nella rete affettivo/cognitiva delle relazioni socioculturali (l’abbiamo chiamata “epigenetica”) il cui ruolo modellante è tutt’altro che insignificante.
La relazione corpo-psiche è bidirezionale e reciprocamente integrata: non esiste un corpo senza psiche e, altrettanto, non esiste una psiche che possa prescindere dal corpo cui appartiene.
In un ambito così complesso, ogni tipo di determinismo semplificatorio appare ingenuo e pericoloso: la biologia, lo psichismo, l’ambiente sono fattori interagenti il cui prodotto è l’identità sessuata. Come l’aritmetica ci insegna, se ad uno qualsiasi di essi si dà valore zero – come richiede la teoria del gender, che attribuisce ininfluenza completa al sesso biologico, valorizzando soltanto la libera scelta, cioè lo psichismo – il prodotto si annulla: l’umano scompare, non è più leggibile ed intelligibile, cedendo il posto alla costruzione ideologica autoreferenziale.
La vita psichica emerge come interiorizzazione, integrazione ed espansione del corpo in dialogo con l’ambiente; così il corpo appare come struttura di relazione, plasmata dalla vita psichica.
Se vogliamo utilizzare il linguaggio informatico, l’hardware è il dimorfismo sessuale, il software è l’identità sessuale che si costruisce sotto l’influsso – conscio ed inconscio – che l’ambiente/cultura esercita sul soggetto.
Genotipo e fenotipo sono strutture plastiche, modellabili e modellate dagli stimoli ambientali, influenzabili ed influenzate dalle pressioni socio-culturali: sono il software.
Il dimorfismo sessuale è e rimane dimorfico, sesso maschile e sesso femminile, riconoscibili e descrivibili, che vicende storiche o aree geografiche non hanno mai potuto modificare dal primo uomo ad oggi: è l’hardware.
Questa dicotomia binaria fondativa è la struttura base sulla quale il software gira e non può strutturalmente prescindere da essa: non esiste e non può esistere un corpo contenitore di un io sganciato dalla dimensione corporea.
Per chiarire meglio questo concetto, può essere utile una digressione di ordine filosofico.
Partiamo dall’affermazione che sta alla base dell’ideologia del gender: il sesso è un dato biologico con significatività solo nel ristretto mondo della medicina; il genere, invece, è una costruzione culturale e sociale e, quindi, può e deve essere costruito e decostruito a piacere.
In maniera certamente efficace, Simone de Beauvoir riassunse questo concetto nella nota affermazione “donna non si nasce ma si diventa”. A significare che il sesso biologico femminile non è condizione né necessaria né sufficiente perché si diventi donna, essendo questa categoria costruita su stereotipi culturali e sociali che possono prescindere dal dato naturale.
La nota vicenda “Bruce, Brenda, David”, architettata e voluta da John Money
alla fine degli anni ’60 al John Hopkins Hospital di Baltimora, si mosse esattamente
in questa direzione.
Aristotele, nel IX Libro della Metafisica, affronta il tema della differenza fra “potenza” ed “atto”: potenza è la capacità di un ente di essere ciò che ancora non è; atto è il compimento
di ciò che era prima soltanto potenza. “Natura” è il principio che guida il divenire da potenza ad atto.
Applicando queste categorie al tema che stiamo trattando, possiamo dire che il sesso è la potenza, l’atto è il genere e la natura è il progetto che attua il passaggio dal sesso al genere. Dentro questa cornice, il compimento della propria identità sessuata sta nell’acquisire pienamente la coerente identità di genere, diventando, cioè, uomo (se maschio) o donna (se femmina).
Facciamo un esempio che esula dal presente contesto, ma che può esserci utile per capire meglio, pur restando ben consci che ogni analogia porta con sé, inevitabilmente, qualche approssimazione.
Se acquistiamo un seme di ulivo (potenza) e lo piantiamo in terra perché cresca una buona pianta di ulivo (atto) è necessario che tanti altri fattori (natura) siano rispettati (qualità del terreno, luce, aria, umidità, ecc.); altrimenti lo sviluppo della piantina verrà ostacolato nello svolgersi del suo processo naturale, che dovrebbe consentirci di raccogliere le olive per farne del buon olio. La potenzialità c’è, ma l’ambiente può ostacolare lo sviluppo della piantina,
che non raggiungerà mai, quindi, la meta del suo sviluppo (atto).
Mutatis mutandi, se una persona non riesce a sviluppare pienamente la sua potenzialità (sesso), non significa che non ne ha, ma che l’ambiente (cultura, epigenetica in senso lato) non glielo ha consentito.
Ogni bambino che nasce è portatore di una potenzialità (maschio, femmina) che può e deve diventare atto (uomo, donna) attraverso un progetto (ambiente, cultura) in cui giocano un ruolo fondamentale innanzitutto le figure genitoriali di riferimento, padre e madre, ed in seconda battuta l’educazione che riceverà (scuola, società).
Il padre, con la sua corporeità maschile, e la madre, con la sua corporeità femminile, veicolano quel ruolo paterno e materno che ha plasmato ciascuno di noi.
Certamente possono ricorrere situazioni in cui si è reso necessario che quel ruolo fosse svolto da un’altra figura parentale o non, oppure che entrambi i ruoli siano stati realizzati dalla medesima persona, esercitando una funzione vicariante, ma ciò non toglie che si tratta di condizioni in cui si è costretti a fare di necessità virtù, un’eccezione, quindi, alla regola naturale.
La figura vicaria, per quanto buona sia, è sempre una forma di surrogato dell’originale, che solo uno stato di necessità immodificabile può giustificare: tutti sappiamo che – in ogni ambito della vita – se possibile, l’originale è sempre meglio del surrogato.
L’ideologia del gender, con il correlato dell’omogenitorialità, nega acriticamente tutti questi processi, proponendo una vera dittatura dell’autodeterminazione assoluta: il prezzo da pagare è la frantumazione della personalità.
Non si può scindere l’inscindibile; distinguere componente biologica sessuata da componente psicologica-relazionale è impossibile, sono le due facce di una stessa medaglia.
Poniamoci una domanda: perché condizioni di fragilità psichica e sociale – dalla depressione all’ansia, dall’ideazione suicidaria all’alcoolismo – ricorrono molto più frequentemente in persone LGBTQ rispetto al resto della popolazione?
Qualcuno sostiene che la causa è l’omofobia sociale, o l’omofobia interiorizzata, che la cultura omofobica diffusa produce ed alimenta: è possibile che vi sia anche una componente di questo tipo.
Ma, se solo di questo si tratta, come spiegarci che paesi caratterizzati da una diffusa e consolidata cultura “gay friendly” (Olanda, Belgio, Paesi Scandinavi, ecc.) ci consegnano statistiche per nulla dissimili dalle nostre? Anzi, con il dato inquietante di un più alto numero di suicidi rispetto all’Italia.
Perché non pensare che proprio la frantumazione della personalità di cui abbiamo parlato sta alla base di tanta fragilità, promuovendo stili di vita caratterizzati da instabilità emotivo-affettiva, impulsività erotica maggiore rispetto all’assetto relazionale medio delle coppie eterosessuali, con complesse situazioni esistenziali conseguenti?
E gli aspetti strutturali non sono da meno: immagine di sé molto fragile, bassa autostima spesso celata con atteggiamenti aggressivi, profondo senso interiore di inadeguatezza rispetto alle esigenze del vivere, motivazione intensamente narcisistica nelle relazioni affettive e nella ricerca del partner.
Ma il vero nodo della questione è che si tratta di una patologia identitaria, non sessuale, per la quale le persone soffrono grandi disturbi e disagi, con enormi problemi di gestione del proprio io.
Proprio in questa prospettiva, appare inaccettabile – e si configura come un vero e proprio abbandono terapeutico – la presa di posizione dell’Associazione degli psicologi italiani di mettere al bando, nelle strutture sanitarie pubbliche, ogni percorso di terapia “riparativa” per quelle persone che vivono con disagio la propria identità di genere omosessuale.
Per contro, il mondo gay richiede a gran voce la cosiddetta “terapia affermativa gay” (GAT: Gay Affermative Therapy): perché questa sì e l’altra no, di fatto imponendo un percorso unico che prescinde dalla libera scelta della persona e silenziando esperienze cliniche “controcorrente”, attestanti che “in pochi mesi è stato possibile sollevare dalla loro sofferenza persone omosessuali che avevano seguito terapie GAT per vari anni, senza ottenere alcun giovamento” (A.M. Persico, Campus Biomedico, Roma)?
Per concludere, torniamo al “glossario” gender da cui eravamo partiti.
“Identità di genere” è la percezione di sé – che il soggetto avverte e dichiara.
Quindi, non “io sono maschio” o “io sono femmina”, ma “io sono come mi sento”.
Da questa identità deriva il “ruolo di genere”, cioè la manifestazione pubblica,
la condotta sociale: sulla base di “come mi sento, così mi comporto”.
L’orientamento sessuale, invece, definisce la direzione del desiderio affettivo-erotico,
rispetto ai sessi. L’orientamento sessuale, si dice, è una pulsione, ubbidisce, cioè, ad una forza naturale che ci impone comportamenti non scelti, imperativi, quasi automatici.
In quanto tali, non possono e non devono essere contrastati; vanno semplicemente
accolti, creando le condizioni sociali perché possano essere realizzati ed esperiti.
Ecco un altro esempio di linguaggio scorretto e mistificatorio: si attribuiscono alla pulsione le caratteristiche che sono proprie dell’istinto.
Le scienze antropologiche da sempre ci descrivono l’homo sapiens come un essere pulsionale, ma non istintuale; certamente plasmato da condizionamenti esterni, ma pur sempre in grado di fare scelte e, quindi, di esercitare una sua forma di volontà libera.
Perfino Dawkins arriva a riconoscere che a fronte di “geni egoisti”, che imporrebbero all’uomo scelte assolutamente narcisistiche di tornaconto diretto, egli è in grado di fare scelte atipiche, in controtendenza rispetto al proprio interesse egoistico, scelte “altre”, controproducenti in termini di guadagno personale. Un vero elogio ateo al libero arbitrio.
Questo sta a dirci che la pulsione è modellabile, orientabile, controllabile, a differenza dell’istinto che schiavizza l’animale. Gli animali si accoppiano per istinto, l’uomo fa l’amore; gli animali hanno una sessualità soggiogante, l’uomo ha una sessualità che risponde ad una scelta responsabile e consapevole. L’animale agisce in automatico, l’uomo deve dare motivazione e giustificazione della propria condotta.
Siamo, così, giunti al nodo profondo della teoria del gender: essa è figlia di un pensiero filosofico che nega la possibilità di descrivere la realtà come qualcosa di intellegibile e conoscibile, nega la possibilità di conoscere l’oggetto in quanto tale e, quindi, la possibilità di giungere alla conoscenza di una verità oggettiva e condivisa.
Anche la storica “corrispondenza ai fatti” che il relativista Popper invocava come dato indiscutibile, viene di fatto negata.
Nulla dunque è possibile dire e descrivere circa l’uomo, la cui dimensione di “persona in relazione” cede il passo alla figura dell’“individuo”, solo ed isolato, preda di un delirio autopoietico che, partendo dalla scelta di genere, arriva fino alla scelta di quando e come morire.
Massimo Gandolfini, Chiara Atzori