Abbiamo raccolto le testimonianze di diversi operatori sanitari che hanno lavorato in strutture dove si pratica l’aborto. Sono testimoni di un orrore che per un certo tempo, per un motivo o per un altro, hanno voluto e potuto ignorare. Sono testimoni del massacro di bambini innocenti, delle profonde ferite che le madri portano per sempre, e dei seri problemi psicologici che devono affrontare anche gli stessi medici e paramedici coinvolti nella crudele pratica.
Di seguito riportiamo la storia di Kathy: «tutto il male a cui avevo partecipato mi stava uccidendo dentro. Ed entravo ogni giorno in clinica senza sapere cosa stessi facendo alla mia anima. Quando ho assistito per la prima volta a un aborto, non l'ho vissuto diversamente dalla dissezione di una rana durante una lezione di biologia. Avevo i paraocchi, come molte persone coinvolte nell'industria dell'aborto.Era un bambino, erano tutti bambini. Avevo partecipato all'omicidio di quasi 1.000 bambini».
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Ha sempre desiderato di diventare un'infermiera. Amava vedere i bambini nascere. Poco dopo il matrimonio ha avuto una bambina, ma si trovava in condizioni economiche disagiate per cui ha sospeso gli studi ed è andata a lavorare. Le è stato offerto, grazie a un amico, un posto nella clinica per aborti Hope Abortion Center, in Illinois. Era “pro choice" ed era felice di poter lavorare in campo medico senza una laurea, quindi ha accettato.
«Mi hanno assunto principalmente per assistere il medico durante gli aborti, ma ho potuto lavorare in ogni singolo reparto di quella clinica. All'inizio rispondevo al telefono e prendevo gli appuntamenti. Poi sono stata addestrata a fare cose interessanti, come misurare la pressione sanguigna: mi piaceva il mio lavoro. Avevo il camice bianco. Il mio desiderio di fare l’infermiera si stava in qualche modo realizzando. Non vedevo quanto fosse malvagio l'aborto, non mi dava affatto fastidio. Quando ho assistito per la prima volta a un aborto, non l'ho vissuto diversamente dalla dissezione di una rana durante una lezione di biologia. Avevo i paraocchi, come molte persone coinvolte nell'industria dell'aborto.
Parte importante in questa clinica era la consulenza. Ho assistito una consulente “bravissima”: riusciva a capire qual era il punto di pressione che induceva la donna ad abortire. E poi era in grado di amplificarlo. Se per esempio una ragazza diceva che i suoi genitori “l'avrebbero uccisa", e lei non sapeva come dir loro che era rimasta incinta, la consulente la rassicurava: “Non c’è bisogno di dirglielo, ecco perché c'è l'aborto, vogliamo aiutarti, questa è la risposta ai tuoi problemi”.
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Se il problema era economico, spiegava quanto costano gli articoli per bambini.
La consulenza era così efficace che 99 donne su 100 andavano avanti e abortivano.
Successivamente ho lavorato nella sala di risveglio, quindi nella stanza di pulizia. La stanza di pulizia era la parte peggiore della clinica: lì portavano i resti dei bambini. Quelli più piccoli, fino a 12 o 13 settimane, li mettevamo in un barattolo, li etichettavamo e li mettevamo in uno scatolone che andava al laboratorio di patologia.
Ho cominciato ben presto a drogarmi e a bere: stavo molto, molto male.
Quando i bambini venivano messi nei barattoli, li facevamo girare e guardavamo i piccoli arti che galleggiavano. Per quanto possa sembrare un comportamento malato, è così che è stato, ed è così che è: e sta avvenendo in molti posti in questo preciso momento.
E così andavo avanti, giorno dopo giorno, e le cose si stavano mettendo molto male nella mia vita.
Tutto il male a cui avevo partecipato mi stava uccidendo dentro. Ed entravo ogni giorno in clinica senza sapere cosa stessi facendo alla mia anima.
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Una sera ho avuto una crisi nervosa. Mi sono rivolta a mia suocera, che consideravo una matta bigotta, in preda alla disperazione. Ci siamo sedute in veranda e lei mi ha raccontato tutto di Gesù Cristo. Quella notte, era il 28 luglio, abbiamo pregato insieme e ho dedicato la mia vita a Gesù Cristo.
Ma per tre mesi ho continuato a lavorare alla clinica per aborti. Un giorno faceva un freddo cane. Non riuscivo a scaldarmi. Ero gelata fino alle ossa. È stato incredibile perché nessun altro sembrava accorgersi del freddo. Uno dei primi aborti fatti quel giorno è stato su una donna incinta di 23 settimane. Lei giaceva sul tavolo. Era una persona di costituzione regolare e aveva una bella pancia. E ho pensato che no, non poteva esserci dentro un bambino così grande! Tremavo, ero nervosa. L'abortista ha iniziato la procedura. Ha iniziato a dilatarla e le ha rotto le acque. Una procedura che normalmente richiede da cinque a otto minuti ha richiesto un'ora. La donna soffriva moltissimo. Urlava. L'infermiera le urlava a sua volta di tacere perché nella sala d’attesa si sentiva tutto. Le ossa del bambino erano troppo sviluppate per la curette, quindi il medico ha dovuto estrarre il bambino con una pinza. Lo ha tirato fuori in tre o quattro pezzi.
Ho preso quel bambino che era stato disteso sul tavolo. Lo ho portato nella stanza delle pulizie e ho cominciato a piangere, in modo incontrollabile. Era un bambino, erano tutti bambini. Avevo partecipato all'omicidio di quasi 1.000 bambini. Ho pianto e pianto. Quel faccino era perfettamente formato; i suoi occhietti erano chiusi, tutto era perfetto in quel bambino.
Un'infermiera è venuta a vedere cosa mi stava succedendo. Mi ha guardato, ha chiuso la porta ed è andata a chiamare la direttrice della clinica. Questa è entrata, ha chiuso la porta dietro di sé e ha cominciato a rimproverarmi: “Rimettiti in sesto, sei una professionista…”. Poi ha preso il bambino e lo ha buttato nel water. Le ho detto che non potevo più lavorare così, sarei rimasta a fare le pulizie.
Quella sera ho raccontato a mio marito l'intera esperienza. Non sapevo cosa fare, avevamo migliaia di dollari di debiti. Abbiamo pregato: “Signore, se mi vuoi fuori da quel posto, parlami e so che andrà tutto bene, e me ne andrò, Signore”.
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La mattina dopo alla clinica per aborti, stavo lavorando nella stanza delle pulizie ed è entrata la direttrice. Era turbata e mi disse che aveva fatto un sogno che sembrava reale: aveva sognato che io le dicevo che dovevo lasciare il posto a causa della mia religione. Le ho risposto che era un sogno, ma che ora diventava realtà: “Devo andarmene ed è a causa della mia religione”.
Ho lasciato la clinica ed è stato un sollievo incredibile. Mi ci sono voluti almeno sei mesi prima di capire che il Signore mi aveva perdonato. Mi ci sono voluti sei mesi prima di poter accettare davvero il Suo perdono. Poi sono diventata una nuova creatura. Quella vecchia era morta per sempre».
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