Una riflessione importante sulla pervasività della tecnologia, in ogni ambito, ormai, della vita umana, è stata tenuta in questi giorni da Antonello Soro, Garante per la Protezione dei dati personali, nella relazione annuale alla Camera.
Soro già nel 2018 aveva sottolineato che «governare l’innovazione digitale in funzione della tutela della persona e delle libertà è il vero obiettivo, da cui dipendono presente e futuro delle nostre società, con implicazioni che si estendono a ogni campo della vita individuale e collettiva». E ancora di più, in questi giorni, come riporta anche l’Agi, ha rimarcato il ruolo predominante che rischia di avere la tecnologia nella vita dell’uomo incorrendo nel grave pericolo di essere dominato da essa piuttosto che servirsene: «Dal lavoro alla salute e alla ricerca scientifica», ha affermato Soro nella relazione alla Camera, «ma anche alla giustizia, che in alcuni Paesi sta già avviandosi a divenire ‘predittiva’, affidando agli algoritmi persino quelle decisioni dirimenti sull’uomo (colpevolezza, libertà, punibilità) che sembravano l’ultimo baluardo del dominio della razionalità umana».
Non solo, ha sottolineato come oggi siamo arrivati all’assurdo, a un uso della tecnologia che va contro l’umano stesso: «Vengono progettati algoritmi per valutare tanto l’idoneità allo sviluppo dell’embrione da impiantare in utero, quanto la prognosi di sopravvivenza dei pazienti ricoverati. La vita e la morte, i temi ultimi su cui ancora residuava mistero, divengono, così, oggetto anch’esse di valutazioni predittive affidate ad algoritmi che, se non esenti da pregiudizi (di genere, etnia, ceto) rischiano di replicare, in progressione geometrica, le discriminazioni da cui avevano promesso di liberarci». C’è insomma il rischio di un nuovo “totalitarismo digitale”, come ha denunciato Soro, «con l’ambiguità di ogni tecnica, ma anche con la forza propria delle rivoluzioni epocali, il digitale può essere presupposto tanto di espansione quanto di limitazione delle libertà, se si inverte il rapporto tra mezzo e fine».
Manuela Antonacci