Se la guerra in quanto tale è sempre, già di per sé, un fenomeno che rivela abissi e orrori dell’umanità, nel conflitto che si sta consumando in Ucraina troviamo, se possibile, qualcosa di ancora più spaventoso, un dramma nel dramma: quello dell’utero in affitto e delle sue conseguenze. Beninteso: non costituisce certamente una novità che Kiev sia l’epicentro non solo europeo di tale abominevole pratica.
Infatti già da quando, nel 2015, i Paesi asiatici hanno iniziato ad introdurre delle limitazioni alla maternità surrogata commerciale, l’Ucraina è sostanzialmente diventata la Mecca di tale mercato, anche in ragione degli stipendi che essa assicura alle madri “surrogate” e che, in questo modo, riescono ad ottenere uno stipendio pari al triplo del salario medio ucraino.
Il punto è che questi giorni di distruzione e morte accentuano ancora di più il dramma dell’utero in affitto. Lo prova, anzitutto, lo sconvolgente caso dei «neonati sospesi» che a Kiev sono ora in attesa dei committenti, i quali per ovvie ragioni non possono – dispiace usare una simile espressione, ma la surrogazione di maternità è questo – «andarli a ritirare». I «neonati sospesi» sono decine di piccoli che ora si trovano nei bunker della capitale ucraina.
A prendersi cura di loro, per così dire, è BioTexcom, azienda specializzata nel mercato del figlio on demand che, da sola, tiene in pugno metà del mercato ucraino, e che in questi giorni sta rassicurando i suoi clienti pubblicando sui propri canali social foto e video del rifugio sotterraneo allestito per ospitare i bambini, il personale medico e le "tate"; quasi a dire: tranquilli, cari aspiranti genitori, i vostri «prodotti» sono qui, dove solo pazientare che passi questo momentaccio.
C’è però anche chi non si accontenta di tali rassicurazioni e corre «a ritirare» i figli commissionati. Sembra per esempio essere questo il caso di due cittadini cinesi che, lo scorso 14 marzo, sono stati fermati al confine tra Ucraina e Romania, mentre erano a piedi e con due neonati in braccio. Insospettiti dai due, i militari ucraini li hanno fermati ma costoro, a quanto pare, non sono stati in grado di fornire i documenti e – cosa ancora più importante - non hanno saputo o voluto spiegare dove avessero preso i neonati che erano con loro.
Si trattava forse di due “corrieri” o di due genitori impazienti di «ritirare» i «prodotti» profumatamente pagati? Probabilmente, una delle due ipotesi è quella vera. Del resto, sono gli stessi media occidentali a raccontare storie di questo tipo. Per esempio, alcuni giorni fa l’emittente Sky News si era soffermata sulla vicenda di tale Rend Platings di Cambridge la quale, già reduce da cinque aborti spontanei, pare veda ora la sua «unica speranza» (notare il tono strappalacrime, ndr.) nei servizi, per così dire, della citata BioTexcom.
Una cosa è dunque certa, ed è quella già richiamata in apertura: se ogni guerra è sempre una sconfitta per l’umanità, in quella che dallo scorso 24 febbraio sa insanguinando l’Ucraina c’è qualcosa che al dolore aggiunge dolore, ossia il destino incerto di tanti neonati la cui prima parte dell’esistenza orbita attorno a parole e pratiche - compravendita, pagamenti, attesa dei clienti, «ritiro della merce»... - che è disumano accostare a dei figli.
Eppure questo è; solo che, a differenza della guerra – che tutti condanniamo – per molti, anche in Occidente, quei bimbi ora stipati come polli da allevamento nei bunker ucraini non sono una vergogna, bensì un «diritto». Un «diritto» di chi ha, soprattutto, il portafogli molto generoso.