22/07/2013

Un caffè nero nero

Si chiamano Death Café. Chiacchierare di morte come nuovo rito sociale consolatorio, con annesso rinfresco e pagina Fb

Sembra uno scherzo uscito dalla fantasia di qualche emulo fuori tempo massimo della famiglia Addams e invece è tutto vero. Stiamo parlando dei Death Café, ovvero “vieni a prendere un caffè da noi per parlare un po’ di morte”. Più precisamente, recita il sito dell’iniziativa, “per aumentare la consapevolezza della morte con l’obiettivo di aiutare la gente a sfruttare al meglio la gran parte della propria vita (che finisce)”. Altro che rimozione, cancellazione, azzeramento della coscienza della finitezza della vita, peccati di cui la modernità è continuamente accusata. I Death Café arrivano per rimediare, e non lasciano nulla di intentato.
Death Café è il marchio di un “social franchising” che si sta diffondendo nell’occidente stanco e disincantato, soprattutto anglosassone, e che nello scorso febbraio è sbarcato per la prima volta anche in Italia, a Verona. Si promettono – e giudicate voi se il programma è allettante – conversazioni guidate sul morire, rivolte non a malati terminali o a chi ha subìto lutti recenti, ma in generale a chi vuol riflettere sulla fine della vita e su tutto ciò che ne consegue e che avviene intorno a quell’evento. Gli incontri si tengono in ambienti accoglienti e “caldi”, come può essere per esempio una sala da tè. Ma può andar bene anche il salotto di una casa privata, purché siano previsti buone bese vegetariano.
Parlar di morte intorno a un tavolo imbandito, di per sé, non costituisce di certo una novità – basti pensare all’usanza di pranzare o cenare con gli amici dopo i funerali di un familiare – mentre lo è l’idea di farne la missione centrale di una catena di imprenditoria sociale, fatta di una rete di piccoli cenacoli intellettual-popolari impegnati a rompere il silenzio intorno alla morte. Ma senza alcuna intenzione di darle un senso, o tanto meno di proporre percorsi religiosi o culturali.
L’ideatore dei Death Café è il londinese Jon Underwood (nomen omen, visto che in italiano suona come “sotto il legno”), che li ha avviati nel 2011, ispirato dall’esperienza del sociologo ed etnologo svizzero di religione protestante Bernard Crettaz. In un libro uscito nel 2010 e intitolato “Cafés Mortels. Sortir la morte du silence”, Crettaz racconta di come dopo la morte della moglie, l’antropologa Yvonne Preiswerk (con la quale aveva fondato all’inizio degli anni Ottanta la Société d’études thanatologiques de Suisse Romande) ha pensato di organizzare i Cafés Mortels (parliamo di morte al bistrot, era l’invito) che dal 2004 hanno coinvolto centinaia di persone in Svizzera e in Francia.
Underwood ha apprezzato l’idea e ne ha fatto, con l’aiuto della psicoterapeuta Sue Barsky Reid, un vero e proprio format da proporre e replicare ovunque. L’esordio è avvenuto nel salotto della sua casa londinese, nel settembre del 2011: un momento conviviale per esprimere pensieri, suggestioni, convincimenti sulla fine della vita, o anche solo per ascoltare gli altri parlarne. Solo sei i partecipanti – non è tema da assemblee, effettivamente – sufficientemente entusiaste, però, da avviare un effi cace passaparola. Gli incontri a tema continuano fino a che, nel gennaio 2012, il Southbank Centre di Londra (uno dei più grandi complessi di sale da concerto d’Europa, situato sul Tamigi, fra County Hall e il Waterloo Bridge, con un migliaio di eventi a pagamento e milioni di visitatori ogni anno) organizza un Death Festival. Sono invitati a parlare e a farsi conoscere anche gli ideatori dei Death Café, che nel frattempo, oltre che in Gran Bretagna, si stanno diffondendo negli Stati Uniti, in Canada e in Australia.
Così, nel febbraio del 2012, Underwood pubblica le sue “linee guida” dettagliate per chi voglia offrire un Death Café standard, cioè riconoscibile come affiliato alla rete: l’evento è schematizzato in un diagramma di sette punti – organizzazione, pubblicità, prenotazioni, impostazione e preparazione, come tenere il Café, valutazione, riflessione e feedback – che fissano regole minuziose su come costruire il singolo appuntamento. A completare il format c’è anche una specie di verbale dei primi incontri tenuti dai fondatori, insieme a schede di valutazione per i partecipanti, con domande del tipo: “Diresti che aver partecipato a questo evento ha influenzato i tuoi sentimenti nei confronti della morte e/o della vita? Se sì, come?”.
Oppure “Quanto ti sei sentito a tuo agio durante il Death Café? 5: molto a mio agio 1: molto a disagio”.
Ogni incontro coinvolge un numero relativamente piccolo di persone (l’ideale è fra sei e otto, ma è consentito arrivare fino a dodici) guidate nella conversazione da un “facilitatore” capace di rendere gradevole e addirittura molto desiderabile parlare di morte, e possibilmente con qualcuno addetto alle bevande (un cameriere, insomma). Ma ogni Death Café che si rispetti, per essere veramente tale, deve rispondere a cinque principi base: partecipazione gratuita (eventuali donazioni possono solo coprire le spese); incontri liberi da qualsiasi ideologia (e già qui è più dura: significa che è vietato parlare di come i cristiani o i buddisti vedono la morte? Non èhiaro. Ma l’idea è di non orientare i partecipanti verso qualche particolare visione sulla morte, sull’aldilà o sulla vita, ma solo parlare insieme del morire); l’offerta di un buon rinfresco, dalla fondamentale funzione descritta dalle linee guida: “Offriamo cibo e bevande deliziose alle persone per intrattenerle mentre parlano di morte... talvolta possiamo temere che parlare della morte ce la avvicini, e mangiare e bere sono attività vitali utili a proteggere da questa paura. Preferiamo cibo vegetariano”; gli incontri sono accessibili a tutti e rispettosi di tutti, indipendentemente da sesso, età, orientamento sessuale, religione/fede, gruppo etnico e disabilità; il Café deve essere convocato in uno spazio protetto (confidenziale, insomma), in cui poter parlare liberamente.
Non poteva mancare il blog annesso, che racconta quel che accade nei vari Death Café sparsi nel mondo, inclusa la valutazione finale: alla data 4 luglio, per esempio, troviamo un dettagliatissimo e trionfante post del secondo Death Café in Oregon, a Portland. Qualche giorno prima, al primo Lyons Death Café in Colorado si segnala, fra i partecipanti, addirittura la presenza di un bambino allattato. Mentre in Australia – Ettalong Beach, New South Wales – è previsto per il prossimo 8 agosto un “Dying to know Day”, giornata annuale dedicata a conversazioni sulla morte e sul morire, che prevede la presenza costante di un “facilitatore” del Death Cafè. Ma ci si può sbizzarrire tra incontri già fissati a Londra e a Manchester. Non mancano appuntamenti interamente online, grazie ai buoni uffici di Skype. E naturalmente non poteva mancare il Death Café per la comunità Lgbt. E’ stato realizzato l’anno scorso a Londra, e ha riunito ventidue uomini e donne queer, che si sono seduti in cerchio per conversare e si sono passati di mano in mano un talismano (non si sa mai), cioè un piccolo teschio coperto di strass (una copia povera del famoso teschio di Damien Hirst, insomma). Tutto questo è avvenuto “la sera prima del solstizio d’estate, un momento estremamente adatto per rivedere le attitudini alla morte e alla perdita [...]
Abbiamo condiviso storie incredibili e la stanza era piena di luce e con una bella sensazione di connessione e positività”.
Ogni appuntamento del circuito ufficiale dei Death Café ha un post dedicato, spesso rilanciato da un’apposita pagina facebook, che raccoglie anche le notizie di interesse per la Death comunità. Per esempio nella pagina Fb del Death Café Los Angeles leggiamo che il 21 giugno i Death Café hanno avuto l’onore di essere ospitati in uno dei blog più seguiti del New York Times, New Old Age: ogni mese anche nella Grande mela si parla di morte, l’ultima volta è successo in un coffee shop di Manhattan. La pagina Fb del Death Café di Atlanta invece ha come riferimento una signora dal fatale nome di Betsy Trapasso, e come motto un entusiasta: “Dare vita alla morte”. L’annuncio del prossimo incontro è stampato sullo sfondo del poster del film “Il Settimo Sigillo”, di Ingmar Bergman (per chi non lo sapesse e non avesse nemmeno visto l’allusione parodistica inserita da Woody Allen in “Amore e guerra”, è il film in cui il Cavaliere gioca a scacchi con la Morte), e avverrà il 24 agosto, al cimitero di Oakland.
Si può continuare per un bel po’, navigando fra siti e pagine Fb, molto spesso in uno stile che fa molto famiglia Addams, come si diceva all’inizio. Non fa eccezione il Death Café di Verona, dove l’augurio di buon mattino è commentato con la foto di una zolletta di zucchero a forma di teschio, insieme al post che celebra il “cimitero più allegro del mondo” (in Romania, pare).
Non mancano interventi più seri, per esempio condivisi con la Federazione cure palliative onlus, o più inquietanti, come la foto del sepolcro di Fernand Arbelot, musicista e attore francese morto nel 1942 e seppellito a Parigi, al Père Lachaise. Il suo monumento funebre lo ritrae supino, mentre tiene tra le mani una testa di donna, la moglie (il suo desiderio era quello di contemplare per sempre il volto della consorte). Apprendiamo anche che il quinto Death Café italiano, a Verona, si è tenuto nella Casa di Ramia, centro interculturale delle donne.
I Death Café sono anche su Twitter, naturalmente, dove @DeathCafe ha l’originalissima immagine di un teschio, mentre il profilo recita: “Death investigators. Specialists in void-staring”. Anche qui si raccontano gli incontri Death Café sparsi per il mondo; @killerkath73 annuncia che il 6 luglio ha partecipato al suo primo Death Café: interessante, stimolante, un sacco di torta. Dal Canada, Emma Woodman rilancia le foto del Death Cafè di Ottawa: gente allegra, giovane, sorridente, che mangia e beve e si fa fotografare come in una qualsiasi festa. Appesa a una parete della stanza, in bella vista, una lavagna appesa con in cima la scritta: “Prima di morire io voglio...”, e di seguito i desideri di alcuni partecipanti, cose del tipo: “Passare un inverno in Nuova Zelanda e un’estate in Irlanda”. Oppure: “Avere i miei quindici minuti di celebrità”.
A questo punto, abbiamo capito come tutta l’iniziativa poggi su vecchie e infallibili attrattive: l’idea di essere in pochi e prescelti, in una sorta di eccitante società semisegreta nella quale gli eletti partecipanti condividono qualcosa di esclusivo e di molto intenso; l’idea di conoscere persone nuove; l’idea di passare il tempo in un’attività considerata culturalmente elevata, con tanto di rinfresco. Tanto già basterebbe a garantire sufficiente appeal ai Death Café. Ma Death Café è solo uno dei tre progetti di Impermanence (il riferimento è all’impermanenza, l’Anitya sanscrita che indica il continuo divenire dell’esistenza, uno dei pilastri del buddismo).
E Impermanence è il nome dell’impresa not-for profit fondata nel 2012 sempre dal vulcanico Jon Underwood. Gli altri due progetti si chiamano Dying matters (“questioni di morte”: si tratta di un’agenzia che offre servizi completi per persone nel loro ultimo anno di vita, per tutte le loro necessità e quelle dei loro familiari), e Funeral Advisor, sito per organizzare il funerale desiderato (e, si immagina, perfetto), con la possibilità di mettersi in contatto con le agenzie più vicine e garantite. Quest’ultima iniziativa è in collaborazione con il Natural Death Centre, una charity promossa dalla Natural Death Society, l’associazione per chi crede “nel diritto ad avvicinarsi alla propria morte con la stessa libertà con cui ha vissuto la propria vita”, fondata una ventina di anni fa da Nicholas Albery. Singolare figura di hippie made in England, figlio di baronetto e studente a Oxford, dopo una giovinezza piuttosto psichedelica Albery diede vita all’Istituto per le invenzioni sociali con Anita Roddick (a sua volta famosa per aver fondato il Body Shop), Edward de Bono (studioso del “pensiero laterale”) e la scrittrice femminista Fay Weldon. Morto in un incidente d’auto nel 2011, a cinquantadue anni, Albery ha avuto il tempo di lanciare la sua Natural Death Society, che dietro un modico prezzo di iscrizione (venti sterline più due sterline l’anno per sempre) offre la più accurata consulenza su come sbizzarrirsi nell’organizzazione di esequie. A Impermanence è legata anche l’Association of Natural Burial Grounds, che promuove sepolture naturali, vale a dire il seppellimento in terreni dedicati al di fuori delle aree cimiteriali (in Inghilterra si può).
Fondata nel 1994 in Gran Bretagna, si ispira all’opera dell’ambientalista Ken West, autore della “Guida alla sepoltura naturale” e pioniere del relativo movimento, che vede il corpo come un regalo da restituire alla natura. La Anbg ha anche il suo bel codice di condotta, aggiornato al 2013, in cui ci si impegna non solo a rispettare la normativa vigente su questo tipo di sepolture, ma anche a essere seppelliti senza bara o avvolti in materiali biodegradabili.
Se proprio si insiste per avere una bara, che sia comunque “environmental friendly”, cioè opportunamente e velocemente biodegradabile. I corpi imbalsamati sono accettati solo in casi eccezionali, vista la possibile tossicità dei materiali utilizzati, che potrebbero essere rilasciati nel terreno. C’è anche una rivista ufficiale“More to death”, che ospita anche storie personali molto commoventi; si possono leggere poi aggiornamenti sui Death Café, considerazioni sulla cremazione e pubblicità su servizi funebri eco-compatibili.
Non si tratta semplicemente di una versione aggiornata e moderna delle tradizionali pompe funebri, magari un po’ naïve, spesso con tratti decisamente surreali e da fumetto, nonostante alcuni importanti collegamenti con le comunità degli hospice o comunque con servizi disponibili per malati terminali. Realtà come quelle che abbiamo appena descritto coinvolgono sicuramente minoranze, ma non per questo vanno sottovalutate. Come si sa, sono le minoranze con forti identità a cambiare il mondo, e realtà come Impermanence sono lo specchio di una nuova idea del morire, post cristiana e al tempo stesso post pagana.
Post tutto, insomma. Perché, se l’intenzione iniziale è stata quella, lodevole, di rompere il silenzio innaturale intorno al- la morte, l’aver addirittura proibito ogni riferimento al trascendente ha come risultato l’attesa di una morte del tutto desacralizzata, svuotata del mistero che accompagna la fine di ogni essere umano. Accettare la morte senza dei e senza Dio – i convincimenti religiosi, quali che siano, possono essere un’opzione personale, rispettata ma irrilevante – si traduce nel tentativo di cancellarne la drammaticità. Un tentativo che si serve delle conversazioni sul morire semplicemente per abituarsi all’idea che prima o poi tutto finirà per tutti, e allora tanto vale giocare un po’ anche con l’idea della morte.
Le foto dei Death Café, i gadget, le pubblicità dei funerali eco-compatibili, vorrebbero rimandare a una familiarità “naturale” con il morire: tutto si dissolve, tutto si trasforma, e anche noi facciamo parte di questo flusso di nascita e morte nel ciclo degli eventi naturali, così come i corpi che “si donano alla terra” nei seppellimenti “naturali”, che scompaiono per annientare anche il dolore. Tutto vero, per carità, ma anche tutto molto forzato. “Dolore”, per esempio, è una parola che non compare mai nelle pagine facebook delle tante iniziative di Impermanence. Pagine senza lacrime anche quando si raccontano cerimonie funebri e si ricordano persone care che non ci sono più.
La morte comincia quando si è consapevoli che rimane poco tempo per vivere: non per niente i servizi dell’agenzia Dying matters cominciano quando si ha al massimo la prospettiva di un anno di vita, come se i mesi di attesa consapevole della fine fossero inclusi nel processo del morire, e non comunque nel percorso della vita, pur al suo termine. E quindi la preparazione minuziosa della cerimonia funebre, senza Dio e senza dei, significa infine poter decidere tutto il poco che può essere decidibile. Uno scampolo di volontà sottratta all’impermanenza, in fondo. Ma non è il solo paradosso di tutta questa fiera dell’impermanenza.
Lo scorso 30 giugno, il Guardian ha dedicato un efficace articolo ai Death Café, illustrato con una foto che sembra – ed è, a ben vedere – quella di un qualsiasi ristorante, mediamente luminoso e accogliente, con piccoli tavoli ai quali è seduta gente di tutte le età. Il pezzo riassume lo scopo dei Death Café – non c’è spazio per proselitismo religioso anche se tutti sono bene accetti, non sono stati pensati per elaborare un lutto recente ma per affrontare la realtà della morte, che è sempre presente – e spiega che, laddove l’eutanasia è legale, i dati dimostrano che solo una piccola percentuale di persone la chiede. “In una popolazione che invecchia, la maggior parte di noi muore gradualmente. In mancanza della fede, abbiamo bisogno di sviluppare un linguaggio che aiuti a incamminarci verso quella che potrebbe assomigliare a una buona morte”.
Un modo postmoderno e chissà se dotato di vera efficacia (di questa, personalmente, ci permettiamo di dubitare) per affrontare la fine. Per continuare, insomma, a giocare l’eterna partita a scacchi del Cavaliere con la Morte. Oppure è solo una variazione – che si prende molto sul serio – del mondo che lo scrittore inglese Evelyn Waugh raccontava nel suo feroce “Il caro estinto”. Un mondo dove l’accanimento nel mascherare la morte, privo di qualsiasi richiamo alla spiritualità, diventa l’apoteosi del grottesco, oltre che la rappresentazione di una battaglia persa in partenza.
Ma forse Jon Underwood e soci quel libro non l’hanno mai letto.

di Assuntina Morresi

banner loscriptorium

Questo articolo e tutte le attività di Pro Vita & Famiglia Onlus sono possibili solo grazie all'aiuto di chi ha a cuore la Vita, la Famiglia e la sana Educazione dei giovani. Per favore sostieni la nostra missione: fai ora una donazione a Pro Vita & Famiglia Onlus tramite Carta o Paypal oppure con bonifico bancario o bollettino postale. Aiutaci anche con il tuo 5 per mille: nella dichiarazione dei redditi firma e scrivi il codice fiscale 94040860226.