«Il medico che effettua la visita che precede l’interruzione volontaria di gravidanza ai sensi della presente legge è obbligato a far vedere, tramite esami strumentali, alla donna intenzionata ad abortire, il nascituro che porta nel grembo e a farle ascoltare il battito cardiaco dello stesso». Questo recita il testo del comma 1-bis che si auspica possa presto integrare il comma 1 dell’art.14 della legge 194 del 22 maggio 1978 secondo la proposta di legge di iniziativa popolare “Un Cuore che batte”, di cui è imminente la discussione in Parlamento nelle Commissioni riunite II (Giustizia) e XII (Affari Sociali).
Promossa in special modo dall’Associazione Ora et Labora in Difesa della Vita, da Pro Vita & Famiglia e da una cinquantina di altre associazioni che si sono mobilitate da nord a sud del Paese con impegno e dedizione nella raccolta firme, la proposta di legge è stata portata avanti da «persone accomunate dalla concezione della sacralità della Vita umana e dall’urgenza di tutelarla dal concepimento fino alla sua fine naturale contro la cultura di morte in cui siamo immersi». La proposta ora agli atti della Camera è accompagnata da una pregevole relazione introduttiva della bioeticista Giulia Bovassi.
Se il quorum per la presentazione di una proposta legge di iniziativa popolare è di 50.000 firme, tale proposta ne ha raccolte in pochi mesi ben 106.000, segno tangibile che l’opinione pubblica è tutt’altro che allineata al dogma del ‘politicamente corretto’ per il quale la legge 194, alla stregua di un baluardo ideologico, debba essere mantenuta intoccabile a ogni costo (cosa non accaduta per diverse altre leggi del nostro ordinamento).
In effetti, come scrivono chiaramente i suoi promotori, “Un cuore che batte” «intende dare piena applicazione alla legge sul consenso informato. La donna ha il diritto di essere resa consapevole della vita che porta nel grembo, una vita con un cuore che pulsa. Solo in tal modo può essere realmente libera e responsabile delle sue azioni. Il medico che effettua la visita ha l’obbligo di dare un’informazione cruciale, che né per legge divina né per il diritto naturale, può sottacere alla donna. Poiché i medici non obiettori sono coloro che faranno la visita che precede l’aborto, sarà un obbligo che, se non ottemperato, li renderà responsabili nei termini previsti dalla legge sul mancato o incompleto consenso informato».
Insomma non si tratta assolutamente, come i suoi detrattori hanno affermato, di fare terrorismo psicologico sulla donna, né tanto meno di tormentarla sul piano emotivo, bensì piuttosto di scardinare la coltre di silenzio dei protocolli sanitari sulla realtà del concepito nel grembo e utilizzare proficuamente una semplice ecografia, affinché il dato scientifico possa opportunamente contribuire a schiuderne gli occhi e ridestarne la coscienza di madre. D’altra parte senza il riconoscimento della presenza in grembo di un essere umano agli albori della sua vita non c’è un reale consenso informato e viene conseguentemente pregiudicato l’esercizio di un’autentica libertà.
Tale proposta ha dunque proprio il merito di far emergere la realtà di un dato scientifico incontrovertibile: alla quinta settimana, spesso prima ancora che una donna si accorga di essere incinta, c’è già un cuoricino che batte proprio accanto al suo. Ed è giusto, anzi doveroso, ascoltare questo battito – anche più accelerato rispetto al suo perché impegnato a pompare tanto sangue per irrorarne tessuti e organi in formazione – per «rendere visibile l’invisibile e dare voce al silenzio», come scrive la Bovassi, affinché ogni figlio nel grembo materno possa finalmente farsi sentire sin dal concepimento per reclamare quel riconoscimento del suo diritto alla vita che gli spetta per natura in quanto essere umano.