Le problematiche della paternità oggi, dal punto di vista cattolico, certamente, ma anche laico, con l’obiettivo di suggerire domande e senza la pretesa di dare risposte. Si tratta del libro “San Giuseppe, papà di tutti” (Tau Editrice), scritto a quattro mani da Giuseppe Scarlato e da monsignor Michele Seccia, arcivescovo metropolita di Lecce, presentato giovedì scorso alla libreria San Paolo a pochi passi da San Giovanni in Laterano a Roma. Un’occasione, inoltre, per dialogare proprio sulla paternità con Roberto Corbella, che molti conoscono – e come dice lui stesso gli capita anche di essere fermato per strada – come «il papà di Chiara». Un «uomo della strada», come si autodefinisce e un «papà come tanti, sicuramente fortunato» per aver avuto una figlia speciale, oltre che molto simile a lui in forma mentis, sensibilità e carattere.
Il volume di Scarlato e Seccia mette anche due generazioni a confronto sulla figura di Giuseppe di Nazareth: l’uomo, il padre, lo sposo. Il Patrono della chiesa universale, in questo anno che il pontefice ha voluto a lui dedicare, è anche molto altro in realtà. Vorrebbe comprenderlo un giovane come Giuseppe, che con la penna e il microfono ha sempre interrogato la fede negli aspetti più silenziosi e cerca di farlo tramite le risposte di un pastore, appunto un arcivescovo che non avrebbe bisogno di dar voce ad un santo così popolare, se non fosse per riflettere su altre sfaccettature della paternità, in San Giuseppe come in ogni genitore, di oggi e di domani. Monsignor Seccia, infatti, risponde alle provocazioni, ai pensieri, agli interrogativi del giovane scrittore, ma con gli occhi di un padre di anime, dentro e fuori la Chiesa.
E a proposito di paternità, «non c’è un corso per fare il genitore», sottolinea in primo luogo Roberto Corbella, osservando come, per un padre, l’«errore più grave che si possa commettere» sia quello di svolgere il ruolo genitoriale «a comando», come se, fino a un istante prima, si fosse stati soltanto un «marito» o un «uomo d’impresa» e, immediatamente dopo, si diventi tutt’altra persona. Del resto, fa notare Corbella, la curiosità e la voglia di apprendere dei bambini è insaziabile nei primi anni di vita, poi, puntualmente, questo desiderio tende a spegnersi con la scuola dell’obbligo, quando, molto di frequente, gli insegnanti pretendono di «inculcare qualcosa». Invece, «paradossalmente, si insegna nel momento in cui si sceglie di non insegnare», afferma il padre di Chiara Corbella. Il punto di partenza più importante nell’educazione è dunque l’esempio: «Se un genitore fuma, è un non senso chiedere ai figli di non fumare», così come non ha senso «pretendere che due fratelli non litighino, quando vedono i genitori litigare», dice Corbella. Il rapporto di un genitore con il proprio figlio ha sempre qualcosa di «istintivo», rapportarsi con un figlio è «qualcosa di naturale», aggiunge.
Parlando dell’indimenticata figlia, Roberto Corbella ricorda come Chiara, fin da bambina, avesse manifestato un’intelligenza vivace, uno spirito d’osservazione e una sensibilità fuori dal comune. Chiara era alle elementari quando scoppiò la guerra nell’ex Jugoslavia e, sapendo già suonare il piano, aveva composto una canzone dedicata alle vittime del conflitto. «Quando io e mia moglie discutevamo, Chiara veniva e ci costringeva ad abbracciarci e fare pace», racconta il signor Corbella. Come papà, afferma d’essere stato «facilitato» dal fatto che Chiara era «molto sensibile, curiosa», sempre desiderosa di «apprendere» e «molto ironica». Con il padre, la futura beata intratteneva piacevoli e stimolanti conversazioni a tavola: «Eravamo molto scherzosi», dice Roberto, ricordando che, con sua figlia, ha sempre cercato «di essere semplice, non ho mai voluto insegnare nulla, anzi, soprattutto dopo, ho imparato da lei».
Del resto, riflette Corbella, si cade spesso nell’errore di considerare un figlio come una «cosa propria», oppure di proiettare su di lui desideri e frustrazioni, pretendendo che diventi quello che il padre è o avrebbe voluto diventare. Anche l’idea del «diritto ad avere un figlio», che caratterizza pure molte coppie «omosessuali», è un errore motivato dall’«egoismo», afferma il padre della serva di Dio. Molti vorrebbero «prendersi un figlio come fosse un cucciolo», invece l’esperienza di vita di Chiara, ci parla di tutt’altro. «Chiara ha perso due figli», entrambi vissuti circa mezz’ora ma «quella mezz’ora è stata importante», utile anche a «ricordare che un figlio non è nostro».
Roberto Corbella ha poi parlato del suo rapporto con il nipotino Francesco, dieci anni, nato dal matrimonio di Chiara con Enrico Petrillo, un anno prima della morte della madre. «Francesco è la copia di Chiara, anche nel carattere», racconta il nonno. Il bambino ha sempre avuto fin da piccolo grande «capacità di approfondimento», «curiosità» e «spirito critico». Il ruolo di nonno è «facilitato dalla maggiore disponibilità di tempo» e dal fatto di poter «riparare agli errori» commessi nella paternità. «Non li vizio i nipoti», afferma Corbella, che sta educando Francesco ad apprezzare i libri che fanno «ragionare di più», a differenza di un videogioco che è «preconfezionato».
In conclusione, un ricordo struggente degli ultimi momenti di vita di Chiara, nata in Cielo il 13 giugno 2012, a soli 28 anni. L’intera famiglia accompagnò la giovane nella fase terminale della sua malattia, coltivando fino all’ultimo – in particolare la mamma Anselma – la speranza in una guarigione miracolosa. Eppure, in quegli ultimi giorni, rammenta il padre, «non c’era disperazione», né «prostrazione». La casa di campagna dove si erano temporaneamente trasferiti era piena di amici che venivano a pregare il rosario con Chiara, con suo marito e con i suoi genitori. Spesso «si scherzava» e c’era addirittura «baldoria», perché Chiara, nella sua terribile sofferenza, aveva voluto vivere la sua partenza per il Cielo, come un momento di festa. Poco prima di morire, disse: «Ho chiesto al Signore di lasciarmi qui, finché non fosse stati pronti». Nel dolore incancellabile della perdita di una figlia, Roberto Corbella considera se stesso e sua moglie fortunati: ci sono genitori che hanno perso i propri figli «all’improvviso» oppure «con il rammarico di non essersi pacificati con loro».