Neppure il tempo di gioire per una buona notizia, che subito tocca commentarne una strettamente legata alla prima ma, purtroppo, di tenore opposto. È quanto avvenuto nelle scorse ore a seguito della decisione, da parte dell’Ungheria di Viktor Orbán, di fare un nuovo ed ulteriore passo non solo a favore della famiglia e della natalità, ma della stessa vita nascente. Il Ministro degli interni ungherese, Sandor Pinter, ha difatti emesso un ordine, pubblicato nella Gazzetta ufficiale ungherese, che entrerà in vigore a breve e che prevede una cosa molto chiara: l’obbligo, da parte dei medici, di far sentire i battiti del cuore del nascituro alle donne che fossero alle prese con il dubbio di abortire.
Questo ovviamente non sempre; nel senso che il battito cardiaco di un bambino nel grembo materno può essere rilevato a partire dalla sesta settimana di gravidanza, quando ci si rende conto generalmente di avere una gravidanza in corso. Più precisamente, la nuova disposizione in oggetto introduce l’obbligo per i medici di presentare alle donne la prova «chiaramente identificabile delle funzioni vitali del feto». In altre parole, ci troviamo cioè di fronte ad una sorta di riedizione europea di quello che si è per esempio già visto oltreoceano, in Texas, e cioè la cosiddetta heartbeat bill, che vieta la cosiddetta interruzione volontaria di gravidanza una volta che il personale medico abbia riscontrato attività cardiaca nell’embrione. Fin qui, evidentemente, siamo dinnanzi ad una buona notizia.
Quella di tenore opposto – ma strettamente collegata – è quella che nasce dal commento di Amnesty International che, davanti alla novità politica ungherese, ha scelto di parlare di un «preoccupante declino» che avrebbe luogo nel Paese, dove l’aborto dopo la dodicesima settimana è legale dagli anni Cinquanta – e dove appunto la nuova decisione, presa «senza alcuna consultazione», renderebbe «più difficile l’accesso all’aborto e traumatizzerà più donne già in situazioni difficili». Ora, pur con il rispetto che si deve a convincimenti diversi dal proprio, si fatica enormemente a comprendere quale mai potrebbe essere, per una gestante, il «trauma» derivante dall’ascolto del battito cardiaco del figlio.
Anche sforzandosi, infatti, di siffatto presunto «trauma» non si trova affatto traccia. Anzi, in realtà, i riscontri della letteratura scientifica vanno nella direzione opposta, indicando come, se un «trauma» per la donna c’è, esso sia anzitutto l’aborto procurato. A meno che non si voglia considerare gradevole o anche solo indifferente un evento associato, pubblicazioni mediche alla mano, a maggiori i rischi di isterectomia post-partum, di placenta previa, di aborti spontanei, di depressione, di abuso di sostanze, di tumori al seno, di mortalità materna e di suicidi. Numerosissime e robuste, in effetti, sono le pubblicazioni che indicano il legame tra aborto volontario e tutte queste devastante conseguenze.
Ecco che allora, a ben vedere, decisioni come quelle assunte dall’Ungheria di Viktor Orbán andrebbero non solo guardate di buon occhio dal popolo pro life, ma dovrebbero essere proprio celebrate dagli attivisti per i diritti della donna. Invece oggi, come dimostrano prese di posizione come quella poc’anzi ripresa di Amnesty International, accade l’esatto contrario. Ma questo, attenzione, non è un problema dell’Ungheria, dei pro life e neppure di quel Medioevo così spesso citato a sproposito; no: qui il problema è sta nell’ideologia che avvelena larga parte della cultura dominante e delle istituzioni dell’Occidente e non solo; si tratta della medesima ideologia abortista che impedisce ogni volta di vedere, nel concepito, ciò che egli a tutti gli effetti è già sin dal grembo materno: uno di noi.