Prosegue l’analisi della legge sulle unioni civili (cioè matrimonio gay) (qui la prima parte).
Questo articolo viene pubblicato in contemporanea da Corrispondenza Romana, Cultura Cattolica, il Timone on line, La Croce, La Nuova Bussola Quotidiana, Notizie Provita, Osservatorio Van Thuan.
L’iniziativa è promossa dalla piattaforma A Reti Unificate, piattaforma su cui è possibile leggere tutti gli articoli finora pubblicati.
NO alla legge sulle unioni civili
Il matrimonio non è un affare soltanto privato
La legge è “un’ordinanza della ragione in vista del bene comune, promulgata da colui che ha cura della comunità” (STh I-II, 90,4). È con questa definizione che S. Tommaso d’Aquino riassume la tradizione che lo precede.
La legge è qualcosa che appartiene alla ragione. È compito della ragione fare ordine, ordinare le cose in una disposizione armonica. Un ordine è tale in quanto è disposizione verso un fine. Il fine della legge è il bene comune. In quanto è compito della legge disporre per il bene comune, soltanto delle realtà di rilevanza pubblica possono diventare oggetto di una legislazione umana.
Per questa ragione, l’amicizia, essendo cosa privata, non cade nella sfera giuridica (cfr. F. D’Agostino, Una filosofia della famiglia, 147). Il legislatore umano però si interessa giustamente nel matrimonio come unione stabile tra un uomo e una donna in quanto istituzione di alta rilevanza pubblica. Tale rilevanza deriva dal fatto che un’unione siffatta è idonea a trasmettere sia la vita, sia la cultura ai nuovi membri della società. Come diceva Cicerone: “La famiglia (basata come era per lui sul matrimonio) è il seminario della repubblica” (De Officiis I, 17). Nella famiglia viene trasmessa la vita biologica, sì, ma anche quella sociale: il linguaggio, i costumi, le tradizioni.
Essendo intrinsecamente sterili, le unioni di persone dello stesso sesso non hanno rilevanza pubblica, e non sono quindi in grado di porsi al servizio del bene comune. Si tratta di unioni private, basate non su una comune missione, ma sull’affetto reciproco. Se adesso il legislatore ne dà un riconoscimento pubblico, conferendo a tali unioni uno status giuridico, allora si mette a legiferare nella sfera privata degli affetti che non hanno alcun riferimento al bene comune. Perciò non può risultarne una legge in senso stretto, dato che la legge è per definizione orientata al bene comune.
Ma in tal caso il legislatore non solo promulga una legge senza ragione di legge, ma commette anche un’ingiustizia effettiva. Talvolta si sente l’obiezione: “Il mio matrimonio (gay) non nuoce al tuo matrimonio (tra uomo e donna)”. Ma nuoce comunque a un istituto giuridico al servizio del bene comune l’essere messo sullo stesso livello di un’unione strettamente privata. Chiamando le unioni di persone dello stesso sesso con il nome “matrimonio”, oppure dando loro altre forme analoghe di riconoscimento pubblico (unioni civili), il legislatore dichiara implicitamente che il matrimonio è un affare privato. Sta qui l’ingiustizia di una tale legislazione. Pretendendo una rilevanza pubblica per le cose private, si rendono private le cose di rilevanza pubblica.
Chi pertanto si oppone a una tale legislazione si oppone alla privatizzazione del matrimonio, ribadendo la rilevanza pubblica del matrimonio al servizio del bene comune. Le unioni tra persone dello stesso sesso, non avendo una tale rilevanza pubblica e perciò essendo cosa molto diversa dal matrimonio, non devono essere chiamate con lo stesso nome né ricevere uno status giuridico analogo. Altrimenti si tratta di un caso eclatante di discriminazione contro le persone sposate, in quanto si dà discriminazione non soltanto quando si trattano in modo differente le realtà eguali, ma anche quando si trattano in modo eguale le realtà differenti.
La legislazione che conferisce alle unioni civili tra persone dello stesso sesso uno status giuridico eguale o analogo al matrimonio è estremamente preoccupante anche per un’altra ragione. Come abbiamo notato sopra, una tale legislazione si insinua nella sfera privata degli affetti senza riferimento al bene comune. Se il bene comune non serve più come fondamento della legislazione, occorre un sostituto. Il posto che il bene comune occupa nella definizione della legge proposta da S. Tommaso viene ora occupato dai desideri.
Ebbene, se i diritti si fondano sui desideri, lo Stato si arroga un potere arbitrario e inappellabile. I desideri non richiedono un riconoscimento: a essi si risponde o non si risponde. Un diritto basato sul desiderio non è riconosciuto, bensì concesso. Ma un legislatore creatore dei diritti può anche toglierli. In quanto contano i desideri e non le ragioni, non è possibile ragionare contro uno Stato siffatto. Non vi è istanza comune (ad esempio, la realtà del bene comune) alla quale fare appello. C’è solo il legislatore che concede i diritti graziosamente quando gli pare e li toglie spudoratamente quando gli piace.
Stephan Kampowski
Professore ordinario di Antropologia Filosofica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia
Il prossimo articolo A Reti Unificate sarà pubblicato il 18 maggio
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