Il ddl Cirinnà non si occupa solo di unioni civili tra persone dello stesso sesso.
Nel capo secondo, infatti, disciplina le convivenze di fatto, ovvero, come recita l’art. 11, quei rapporti che riguardano «due persone maggiorenni – di sesso diverso o dello stesso sesso – unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile».
Si tratta di un altro istituto giuridico, dopo il matrimonio e l’unione civile. Di questo, però, finora nessuno ha parlato.
Lo fa il sito Gli stati generali, con un commento dell’avvocato Luca De Vecchi. Nonostante l’autore sia favorevole all’equiparazione delle unioni gay al matrimonio, molte delle osservazioni che presenta sono assolutamente condivisibili e interessanti.
In particolare, la critica è mossa verso gli artt. 13 e 15. Nel primo si dichiara che «in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni». Nel secondo, invece, si stabilisce che, in caso di cessazione della convivenza di fatto, vi è il diritto del convivente a ricevere mantenimento e alimenti. In pratica, come nota De Vecchi, «i fidanzati conviventi che decidono di lasciarsi si trovano vincolati a obbligazioni di natura patrimoniale simili a quelli derivanti dal matrimonio, con la sola differenza della, non ben precisata in termini quantitativi, temporaneità». Nell’uno e nell’altro caso, il tutto avviene ex lege, senza possibilità di scampo.
Si avrebbe così una intrusione della legge statale in ambiti rigorosamente privati e che tali dovrebbero restare. Non si capisce perché questa smania di regolamentare anche ciò che dovrebbe restare libero da vincoli... I conviventi, d’altronde, scelgono di non sposarsi proprio per essere più “liberi”. A questo punto, poi, vien da chiedersi perché non riconoscere il poliamore, la poligamia o altri tipi di relazione affettiva... Sarebbe soltanto la logica conseguenza del ddl Cirinnà.
«Lo Stato non solo si arroga il diritto di decidere come i cittadini debbano destinare la propria eredità prevedendo quote riservate per i coniugi e i parenti, ma – osserva l’avvocato – arriva a imporre la propria morsa regolatoria anche su rapporti che sono per definizione “di fatto” e tali dovrebbero rimanere. Se le coppie vogliono stabilire reciproci obblighi patrimoniali potrebbero stipulare un contratto di convivenza (peraltro anche questo dettagliatamente disciplinato dalla legge Cirinnà agli artt. 19 e seguenti) o sposarsi/unirsi civilmente. Ma non si capisce per quale ragione non si possa lasciare almeno un piccolo spazio di libertà in relazioni affettive e di convivenza che spesso sono proprio delle “prove” prima di prendere impegni vincolanti».
Infine, secondo De Vecchi, proprio questa meticolosa regolamentazione delle coppie di fatto contribuirà in maniera decisiva a «depotenziare l’efficacia dell’istituto matrimoniale con il possibile conseguente e definitivo declino del medesimo».
Non possiamo che dargli ragione. E rivolgiamo un invito alla lettura di queste riflessioni a quanti ormai vanno dicendo – passando pure per conservatori – che in ogni caso, una regolamentazione anche delle coppie di fatto è necessaria e va approvata al più presto. Sarebbe il colpo di grazia alla famiglia. Il più micidiale, perché più subdolo.
Redazione