Nelle settimane in cui negli Usa la campagna elettorale presidenziale entra nel vivo, il tema della vita nascente torna più che mai alla ribalta. Quest’anno, con una peculiarità: l’attenzione si sposta dall’aborto chirurgico all’aborto chimico. La sentenza della Corte Suprema federale del 24 giugno 2022 ha fatto da apripista ad una nuova fase di dibattito – giuridico, etico e antropologico – sull’aborto, in cui diventa centrale il ruolo giocato dal mifepristone. Dal momento in cui, due anni fa, la Corte Suprema ha restituito agli Stati la facoltà di legiferare in materia di aborto (eventualmente anche di vietarlo), nelle amministrazioni che hanno approvato restrizioni significative, le donne che desiderano abortire finiscono per ricorrere alla pillola abortiva.
Il cambiamento manifestatosi in questi due anni, nel tempo, ha nuovamente chiamato in causa la Corte Suprema che, a giorni, dovrà pronunciarsi su un altro risvolto dirimente. Tutto nasce da un ricorso presentato dall’Alliance for Hippocratic Medicine che accusa la Food and Drug Administration (Fda) di non rispettare gli standard della sicurezza per le pazienti. Se da un lato, le legislazioni in molti Stati (Texas, Ohio e Mississippi, in primis) sono diventate meno permissive, dall’altro la Fda è andata nella direzione opposta, liberalizzando l’uso del mifepristone. In concreto, è diventato possibile assumere la pillola abortiva entro il limite delle dieci settimane di gestazione (contro le sette settimane del regolamento precedente). Inoltre è stato ridotto a uno il numero di visite necessarie per la prescrizione dell’aborto farmacologico (in precedenza erano necessarie tre visite). Infine, la Fda ha autorizzato un maggior numero di operatori sanitari a prescrivere la pillola anche senza una visita medica propriamente detta.
Nello specifico, la Corte Suprema dovrà esprimersi su alcuni principi:
1) in termini procedurali dovrà giudicare sulla legittimità o meno da parte dell’Alliance for Hippocratic Medicine di portare al massimo tribunale statunitense le prove dei danni provocati dal mifepristone;
2) stabilito il primo punto, la Corte dovrà giudicare se le estensioni all’uso del farmaco abortivo recentemente disposte dalla Fda siano conformi alla legge o meno. Nel caso in cui dessero ragione all’alleanza ippocratica, dunque, i prossimi pronunciamenti della Corte Suprema saranno destinati a incidere con ancor maggiore forza sui costumi degli americani e ad allargare ancor di più il solco antropologico esistente tra i pro-life e i pro-choice d’oltreoceano.
Eppure, la questione è ben più problematica di come appare e la realtà esperienziale mostra evidenze destinate a mettere in crisi il fronte abortista. Va premesso che, nel 2000, ultimo anno di governo di Bill Clinton, l’amministrazione democratica uscente varò delle linee guida (definite «strategie di valutazione e mitigazione del rischio») per limitare gli eventuali effetti indesiderati della pillola abortiva, allora appena introdotta dalla Fda. In quell’occasione, venne fissato il limite della settima settimana per la somministrazione del farmaco, il quale poteva essere prescritto solamente sotto la supervisione di un medico autorizzato certificato, in grado di diagnosticare complicazioni nella gravidanza. Inoltre veniva richiesto al produttore di segnalare tutti gli effetti avversi alla FdA.
Le amministrazioni Obama e Biden hanno però impresso ulteriori liberalizzazioni, estendendo il limite per la somministrazione alla decima settimana, consentendo la prescrizione del farmaco a soggetti del personale sanitario diversi del medico. Per giunta, è stato rimosso l’obbligo di segnalazione degli effetti avversi.
Si è dunque innescata una deriva antropologico-sanitaria che, prima ancora che contro l’etica, va contro la scienza e l’evidenza dei fatti. Una delle evidenze che smentiscono la sicurezza del mifepristone è la percentuale di donne che sperimentano complicazioni gravi: ogni anno, una paziente su 25 (circa 20mila in tutti gli Usa) finisce al pronto soccorso dopo l’utilizzo del farmaco abortivo. Sono invece stati 4.207 gli eventi avversi segnalati alla Fda tra il 2000 e il 2021, a seguito di somministrazioni del mifepristone: un’incidenza che, negli ultimi otto anni, andrebbe rivista al rialzo, dal momento in cui proprio nel 2016, l’agenzia del farmaco statunitense ha rimosso l’obbligo di segnalazione degli eventi avversi non fatali.
Particolare non secondario: la legge federale proibisce l’invio per posta di qualsiasi «articolo, strumento, sostanza, farmaco, medicinale o cosa pubblicizzata o descritta in modo tale da indurre un altro a utilizzarlo o ad applicarlo per produrre l’aborto». La spedizione del mifepristone è dunque già inequivocabilmente illegale.
Inoltre, la misura di sicurezza originale che richiedeva la dispensazione del farmaco di persona da parte di un medico autorizzato aveva lo scopo di proteggere la salute e la sicurezza delle donne. Il riferimento è, in particolare, alla gravidanza ectopica, ovvero quando un ovulo fecondato, invece di impiantarsi nel rivestimento dell’utero della madre, si impianta e inizia a svilupparsi al di fuori dell’utero. In tutte queste gravidanze, l’embrione morirà.
Le gravidanze ectopiche si verificano nel 2% delle gravidanze ma rappresentano il 13% di tutte le morti materne. La metà delle donne con gravidanze ectopiche non presenta fattori di rischio e le gravidanze ectopiche non diagnosticate possono interrompersi, generando un’emorragia pericolosa per la vita. La gravidanza ectopica può essere esclusa solo con l’ecografia. Quando una madre assume il mifepristone senza sapere che la sua gravidanza è extrauterina, il regime farmacologico non influisce sull’embrione, il quale continuerà a crescere. Una madre che sperimenta il forte dolore causato dalla rottura delle tube di Falloppio, potrà erroneamente pensare che si tratti di una conseguenza del suo aborto e non del segno di una complicanza pericolosa per la sua vita, proprio a seguito della gravidanza ectopica. Di conseguenza, l’invio di mifepristone tramite posta mette in grave pericolo la vita delle donne con gravidanze ectopiche.
Inoltre, le donne incinte Rh negative che non ricevono Rhogam profilattico e si sottopongono a un aborto utilizzando il mifepristone possono sperimentare l’isoimmunizzazione, una condizione in cui il sistema immunitario della madre attacca le future gravidanze. Se non trattati, il 14% dei bambini affetti concepiti da madri isoimmunizzate nascono morti e la metà di loro va incontro a morte neonatale o a lesioni cerebrali. Laddove una visita in presenza potrebbe facilmente rilevare se una donna è Rh negativa, l’invio di pillole per posta non lo permette.
Esiste infine un notevole potenziale di abuso dei farmaci inviati per posta, poiché non c’è modo di verificare chi stia consumando il farmaco e se lo fa volontariamente. Vi sono prove sostanziali che indicano che alcune donne sono costrette a prendere il farmaco o lo fanno inconsapevolmente: si va dalle madri che provano a costringere le figlie a prendere il mifepristone, ai fidanzati violenti che esercitano pressioni analoghe, fino ai mariti adulteri.
Ultimo (ma non meno importante) mito da sfatare è quello per cui l’età gestazionale in cui una donna subisce un aborto chimico sarebbe irrilevante. Il sito web di Planned Parenthood indica che fino all’ottava settimana di gravidanza, il mifepristone è efficace nel 94-98% dei casi. Il sito indica che, entro 10-11 settimane, il 13% delle donne avrà un aborto incompleto. Sebbene Planned Parenthood elimini questa complicazione, la verità è che, se si utilizza il mifepristone prima delle 11 settimane, dal 6% al 13% delle donne richiederà un intervento chirurgico per “completare” l’aborto. Più si avanti nella gravidanza, quindi, più crescono i pericoli per le donne.
Oltre ai pericoli fisici derivanti dall’assunzione di mifepristone, non vanno sottovalutate le cicatrici emotive causate dall’assunzione del farmaco. Tra l’ottava e la decima settimana di gestazione, infatti, il bambino ha all’incirca le dimensioni e la forma di un orsetto gommoso. L’industria dell’aborto afferma che si tratta soltanto di un ammasso di cellule. Tuttavia, le donne che abortiscono raccontano storie strazianti di quando hanno partorito non un feto ma un bambino chiaramente riconoscibile: un figlio morto, dei cui resti non sanno cosa fare, sprofondando inevitabilmente in un vero e proprio dramma.