16/11/2024 di Luca Marcolivio

Usa. L’autocensura della ricerca che svela i danni dei bloccanti della pubertà

Negli Usa, c’è chi cerca di nascondere le evidenze dei danni della transizione di genere tra i minori. È facile presumere che la recente elezione di Donald Trump comporterà una marcia indietro su questo tema. A spianare la strada al nuovo corso della Casa Bianca, comunque, c’è già un nuovo caso, scaturito da uno studio dal titolo The Impact of Early Medical Treatment in Transgender Youth, sui trattamenti farmacologici riservati ai “bambini trans”. È significativo che tale documento, per il quale il Congresso ha investito 9,7 milioni di dollari, sia stato oggetto di un’autocensura da parte della sua stessa committente. Johanna Olson-Kennedy, infatti, gestisce la più grande clinica di genere per minori all’ospedale pediatrico di Los Angeles. Il report in oggetto ha però prodotto un effetto boomerang devastante per gli ideologi del gender: i dati finali rivelano che i bloccanti della pubertà non solo non apportano alcun beneficio ai piccoli pazienti ma, spesso e volentieri, possono arrecare loro danni irreversibili.

 

Risultati psicologici preoccupanti

Non meno devastante lo scenario sul piano psicologico: un quarto dei pazienti esaminati soffriva di depressione, ansia e pensieri suicidi, mentre l’8% aveva già tentato il suicidio. La stessa Olson-Kennedy ha candidamente affermato di aver preferito non diffondere lo studio per non offrire un assist ai propri avversari e per non determinarne un caso politico. «Risultati come questi», ha sostenuto Olson-Kennedy, «possono alimentare attacchi politici come quelli che hanno portato al divieto dei trattamenti di genere tra i giovani in più di 20 stati». Lo studio è stato portato avanti nel corso di nove anni: a lavori ancora in corso, Olson-Kennedy si era affrettata ad ipotizzare che dopo due anni di trattamento farmacologico, i bambini avrebbero mostrato «una diminuzione dei sintomi di depressione, ansia, sintomi di trauma, autolesionismo e tendenza suicidaria, e un aumento di autostima e qualità della vita». La studiosa è stata anche coinvolta in cause legali, in cui, ovviamente, ha deposto a favore dei trattamenti farmacologici per il blocco della pubertà, perché, a suo avviso, non avrebbero avuto «alcun impatto sui pazienti». Anche quando ormai i risultati dell’analisi la mettevano con le spalle al muro, Olson-Kennedy ha continuato ad arrampicarsi sugli specchi, sostenendo – con approccio assai poco scientifico – che quello studio sarebbe stato poco rappresentativo una volta messo a confronto con la «quantità di persone di cui ci siamo presi cura».

 

Indagine e interessi economici

È quindi emersa una spaccatura tra la coordinatrice del progetto e parte del suo team, che la esortava a prendere atto della realtà e delle conseguenze nefaste sulla salute dei ragazzi, compresi i ritardi nella crescita ossea e perdita di fertilità. È stato proprio il Congresso a richiamare la dottoressa Olson-Kennedy alle proprie responsabilità, istituendo una commissione d’inchiesta sul suo caso. I parlamentari ora chiedono che il National Institute of Health consegni la documentazione integrale del progetto entro il 18 novembre, al fine di assicurare che i suoi responsabili «pratichino la trasparenza, diano esempio di integrità scientifica e amministrino correttamente i finanziamenti pubblici». Il caso dell’ospedale pediatrico di Los Angeles sta provocando una frattura negli ambienti liberal d’oltreoceano: il New York Times, ad esempio, coraggiosamente ha denunciato l’autocensura da parte di Johanna Olson-Kennedy e del suo team. Cosa può esserci a monte di tanta pertinacia nel difendere delle tesi così false? Probabilmente una questione di interesse: basti pensare che, secondo l’associazione Do No Harm, tra il 2019 e il 2022, negli Usa, oltre 20mila minori sono stati sottoposti a interventi chirurgici per il cambio di sesso, determinando un fatturato complessivo di circa 120 milioni di dollari. L’avidità va a braccetto con l’ideologia. L’ennesimo caso internazionale da non sottovalutare, dunque, anche nel nostro Paese, dove la vicenda dell’ospedale Careggi di Firenze è tutt’altro che archiviata.

 

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