Finalmente anche in Italia le femministe si sono rese conto che l’utero in affitto è una pratica che svilisce e calpesta la dignità delle donne. Il gioco di parole “Se non ora quando?” è fin troppo facile.
Abbiamo letto, infatti, sui media (perfino su Repubblica!) che il collettivo femminista “Se non ora quando”, dopo una riunione a Roma, alla Casa delle donne, ha scritto un appello contro l’orrenda pratica.
Ce n’è voluto. Noi, sono almeno due anni che protestiamo contro il mercimonio di donne e bambini, la moderna schiavitù. La nostra rivista mensile, Notizie ProVita, aveva pubblicato un numero speciale sulla questione già nell’ottobre 2013 (e torneremo con uno speciale sul tema il prossimo gennaio). Qualche politico più sensibile come Eugenia Roccella e pochi altri (... “cattolici, integralisti, di destra”....) ci hanno ascoltato e hanno sposato questa causa in difesa delle donne e bambini. Nella fattispecie, la Roccella, con Olimpia Tarzia (e Assuntina Morresi e Francesco Agnoli) hanno creato con la sottoscritta il comitato “Di mamma ce n’è una sola”.
Ci aspettavamo l’adesione delle donne che si dichiarano portatrici delle istanze di liberazione della donna: invece, tutt’intorno, il gelo.
Poco dopo è sceso in campo Adinolfi (da “sinistra”) e sono nati i circoli Voglio la Mamma. Ma dalla sinistra femminista ancora nulla. Solo qualche voce flebile e isolata, prevalentemente dall’estero.
Oggi, finalmente, anche grazie alla mobilitazione internazionale organizzata a Parigi per febbraio dalla Sylviane Agacinski, si sono svegliate da uno strano letargo anche le femministe italiane.
Scrive la Roccella sull’Occidentale: “Si sperava che una volta appannata la polarizzazione pro e contro Berlusconi, il femminismo tornasse a esprimersi con più libertà, e a parlare dello sfruttamento e della commercializzazione del corpo delle donne anche quando non è utile alla sinistra. Anche nell’era Renzi, invece, la timidezza e le reticenze non sono scomparse, e il lungo silenzio mantenuto durante il dibattito sul ddl Cirinnà, che come è noto legittima l’utero in affitto, lo testimonia”.
Infatti, il banco di prova sulla genuinità della libertà e della sincerità del mondo femminista nel difendere la dignità delle donne sarà proprio la legge Cirinnà: lì – come ben sappiamo – la stepchild adoption agevola e di fatto sdogana la pratica dell’utero in affitto, consentendo, nell’ambito di una coppia omosessuale, l’adozione del figlio del compagno (eventualmente comprato all’estero).
Già si parla di un “tavolo di lavoro” del PD per stralciare dalla legge Cirinnà la vexata quaestio: verrà proposto il modello di unioni civili alla tedesca? Appunto. Come in Germania, una volta passate le unioni civili, l’adozione per le coppie omosessuali seguirà a ruota, con o senza stepchild adoption...
Si chiede ancora la Roccella: “Sono disposte [le femministe] a difendere quel che resta della legge 40, che punisce “chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità”? Sotto lo slogan (per me entusiasmante) “riprendiamoci la maternità”, si limiteranno a condannare l’utero in affitto, o anche la “rapina delle uova”, come è stata definita da alcune femministe la compravendita di ovociti, connessa alla fecondazione artificiale? Sono pronte a sostenere una legge che vieti il ricorso alla maternità surrogata con maggiore efficacia, punendo non solo gli operatori, ma anche chi ne usufruisce direttamente?”
Certo, è il caso di ribadire che il momento è questo... “se non ora quando?”.
Ma ci sia consentita un’ultima nota a margine.
Siamo d’accordo, pare, che la donna che affitta l’utero ed è trattata da schiava, sia effettivamente profondamente schiava del bisogno di soldi, altrimenti mai si presterebbe a una cosa del genere. Perciò va tutelata.
Ma qualcuno, per favore, vuole anche mettersi nei panni del bambino? E’ lui la prima e principale vittima, assolutamente innocente e impotente, del turpe mercimonio. Un bambino ordinato, assemblato, e comprato, rispedito al mittente (o abortito) se non ha tutte le qualità corrispondenti all’ordine impartito, trattato come una cosa, un oggetto di consumo.
E – soprattutto – un neonato che viene strappato scientemente e premeditatamente dal corpo della madre, dal corpo di colei che per nove mesi l’ha nutrito e l’ha cullato, di cui conosce l’odore, gli umori, i gusti, la voce, la frequenza cardiaca. Quel corpo che dovrebbe dargli pace e sicurezza durante tutta l’infanzia, e principalmente in quei primi mesi in cui tutto il resto è nuovo, magari bello, ma spaventoso...
Un piccoletto che davvero non può parlare, protestare o manifestare, a difesa della “categoria”. Per lui, per chi come lui non ha voce, parliamo noi di ProVita.
E tu, che leggi, da che parte stai?
Francesca Romana Poleggi