L’utero in affitto è già di suo una barbarie, a prescindere; lo è sempre ed in ogni caso. Gli stessi tentativi di legittimare questa pratica barbara giocando con le parole – per esempio chiamandola, come fanno i radicali, «gestazione per altri solidale» -, altro non sono, appunto, che meri stratagemmi e tentativi di mitigare una realtà intollerabile. Tuttavia, se l’utero in affitto è già di suo una barbarie, ci sono storie che meglio di altre riescono a farne emergere la natura schiavista e violenta, rendendo evidente ciò che ci vorrebbe scoprire con i suddetti giochi lessicali.
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Una storia di questo tipo è senza dubbio quella di una madre californiana, tale Brittney Pearson, di 37 anni e già madre di quattro figli, la quale si è trovata a vivere un incubo. Per capire quale, meglio fare un piccolo un passo indietro ricordando che non siamo parlando di una donna del Terzo Mondo ma, come si è già detto, di una statunitense la quale peraltro aveva già vissuto l’esperienza di madre surrogata ed ha deciso - evidentemente non così traumatizzata dalla sua prima volta – di farlo una seconda. Purtroppo per lei e per il suo bambino, però, le cose hanno presto preso una piega inattesa.
Infatti, come racconta anche il Daily Mail, che ha avvicinato la donna, a quest’ultima è stato diagnosticato un cancro al seno. Una scoperta dopo la quale, all’inizio, i medici del Sutter Health Medical Center di Sacramento credevano che la Pearson sarebbe stata in grado di sottoporsi a una forma di trattamento chemioterapico compatibile con la gravidanza, che sarebbe stata indotta a 34 settimane di gestazione. Quando però i dottori si sono resi conto che il cancro era purtroppo diffuso più del previsto - e che sarebbe stata necessaria una chemio più aggressiva per combatterlo -, i rapporti tra la donna e i “committenti” del nascituro, una coppia di due uomini, si sono deteriorati subito. In un lampo, anzi.
Infatti i due uomini volevano che il nascituro fosse «immediatamente abortito», nella convinzione che un bambino nato prima delle 34 settimane non avrebbe avuto chance di vivere. Invece la donna era di avviso diverso. Così la coppia ha minacciato azioni legali, cosa che ha messo in crisi persino il team di medici cha ha in cura la donna. La storia ha avuto un esito tragico dato che, poi, la donna ha trovato un ospedale disposto a indurre il travaglio prematuramente e il bambino purtroppo è morto non molto tempo dopo. «È stato frustrante», ha raccontato la donna, «perché volevo dare loro una famiglia ma mi sono sentita tradita da loro e con il cuore spezzato. Mi sono sentita solo “un utero in affitto”».
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Ora, certamente questa vicenda è particolarmente tragica, e si potrebbe essere tentati di considerarla un caso limite; la dinamica però che la innerva è quella che, in fondo, caratterizza ogni pratica di maternità surrogata, la quale è, e resta, essenzialmente una cosa: un contratto. Un contratto dove – per quanto possa apparire crudo dirlo – chi paga poi pretende; e se non ottiene ciò che vuole, minaccia subito azioni legali. Che dall’altra parte ci possano essere un bambino a rischio di morte e una donna malata di cancro, poco cambia: perché chi paga, lo si ripete, pretende. Ed è tempo che storie così aprano gli occhi a tutti quanti hanno una visione edulcorata della cosiddetta gestazione per altri.
«Queste storie vere non vengono mai pubblicizzate sulle copertine delle riviste e non fanno notizia», ha giustamente commentato Jennifer Lahl del Center for Bioethics and Culture Network, «perché non supportano la narrazione di Big Fertility, secondo cui c’è una sorta di angelo che aiuta le persone a costruire una famiglia e ottenere un bambino carino e sano che desiderano così disperatamente. Queste storie evidenziano che ci sono solo perdenti, e che pagano un prezzo enorme». Non resta che augurarsi che vicende tragiche come quella qui raccontata possano aiutare tanti ad aprire – finalmente, meglio tardi che mai - gli occhi sulla natura disumana dell’utero in affitto.