Le “regole-per-scrivere-un-buon-articolo” dettano che la notizia va data subito, fin dall’inizio, per lo meno nei suoi tratti generali, per poi lasciare al dopo riflessioni, commenti e approfondimenti. In questo caso però la vicenda è così perfettamente conforme ai tempi che stiamo vivendo, ossia è così profondamente orrida e ributtante, che forse è il caso di fare uno strappo e cominciare con una domanda rivolta a chi legge.
Che effetto vi fa aprire un libro di storia al capitolo della tratta degli schiavi e leggere che taluni individui venivano strappati al loro luogo di nascita da intermediari che poi li vendevano a compratori i quali li valutavano a peso, stazza muscolare, salute, magari contrattando un buon prezzo per poi portarseli via su una nave? Ma forse è un esempio troppo remoto nel tempo… Veniamo allora ai giorni nostri: che effetto vi fa sapere che i fondamentalisti islamici dell’ISIS facevano compravendita delle donne, solitamente giovanissime, non di rado bambine, catturate durante le loro scorrerie, con prezzi variabili dai 500 ai 2.000 dollari?
Davanti alla fattispecie antica come a quella recente si dovrebbe avvertire un brivido freddo lungo la schiena. Brivido di fronte alle schiavitù che arriva – o dovrebbe – anche quando protagonista è la schiavitù del XXI secolo, quella dell’utero in affitto, addirittura questa volta associata all’aborto. Ma veniamo ai fatti.
Siamo nel 2020, circa quattro anni fa dunque. Negli Usa. Una coppia contatta un’agenzia di intermediazione e compra il seguente servizio: un utero dove impiantare ovuli fecondati dal seme di uno dei due, impostati però perché quello stesso utero produca un parto gemellare. Ebbene sì, la coppia vuole i gemellini e allora? A te cosa toglie? E che sia chiaro, sia anzi chiaramente statuito nel contratto: se per caso uno dei due o tutti e due i feti risultassero malati o malformati, aborto immediato.
La coppia addirittura si dichiara cattolica e antiabortista ma, insomma, visto che pagano una bella cifra, non possono di certo accettare prodotti fallati. L’agenzia di intermediazione produce il preventivo che viene accettato e parte la caccia all’utero, che alla fine viene trovato. È un utero già utilizzato, almeno così si pubblicizza su TikTok: ha già prodotto una figlia e questo fa curriculum. L’intermediario è contento: la proprietaria dell’utero è single e ha bisogno di denaro, quindi con quattro spicci si ha il servizio desiderato. Si parte dunque: clinica, impianto e via.
Qualcosa però va storto: dopo un po’, durante un controllo, risulta che uno dei due gemellini non ce l’ha fatta. L’utero comprato ha fatto cilecca. Bisogna andare a vedere le clausole del contratto. «Eh no, noi abbiamo pagato per due, mica per uno…», avranno di sicuro strillato i due. «Abortisci!» è l’imperativo categorico, con una sorta di zucchero per addolcire la pillola: la promessa di riprovarci. La donna però non vuole, non ci sta, punta i piedi. Il contratto però le va incontro: se non vuole, la avvisa l’intermediario, può benissimo non abortire, però non verrà pagata. La donna, disperata, è quindi tra l’incudine e il martello: da un lato il bisogno di soldi, dall’altro la coppia che si appiglia a tutto, compresa la pandemia, per pressarla e convincerla ad andare sotto ai ferri. Finisce che il figlio nasce e i due "committenti", dopo tanti capricci, decidono di “accontentarsi” e lo tolgono alla proprietaria dell’utero, con buona probabilità pagando la metà di quanto pattuito all’agenzia di intermediazione.
Si tratta di una storia vera, che abbiamo raccontato volutamente in modo brutale, con un misto di amara ironia, non per gusto dell’orrido o per semplificare, ma per mostrare il re veramente al massimo della sua repellente nudità. Si parla di vite rimandate indietro come si fa con il vassoio di un fast-food dove si sono dimenticati di mettere le patatine, protestate come si fa con il muratore che aveva promesso di rasare le pareti della stanza entro venerdì ma ne fa soltanto metà, svilite come il povere o migrante a cui si dà un euro al semaforo solo per toglierselo da davanti al finestrino, eliminabili come l’arancia marcia che si annida sempre dentro il sacchetto retinato del supermarket. Ma erano vite, anche quando da due sono diventate una sola, anche quando sulla loro pelle si mercanteggiava e si facevano pressioni. Erano e sono vite.
È un pio autoinganno pensare che la tratta degli schiavi sia storia antica. C’è ancora, non ha lasciato, anzi ha raddoppiato: schiavi i bambini che si comprano e si vendono, schiave anche le madri sfruttate perché strette dal bisogno. Quella raccontata, non è una storia a sé, ma una delle tantissime che avvengono ogni giorno, quantitativamente per ora non nelle proporzioni dell’antica tratta, ma qualitativamente assai più spregevoli perché basate sul capriccio di voler comprare con il denaro ciò che la natura non consente di ottenere. Il tutto mentre sullo sfondo le femministe appaiono distratte, pronte a destarsi soltanto quando c’è da strillare contro “il patriarcato” in qualche post su Facebook o Instagram, o quando c’è da chiedere più soldi pubblici per questa o quella associazione, ma sempre zitte e buone quando uno dei più importanti elementi qualificanti della donna viene svilito, umiliato e lacerato.