28/09/2017

Vita “non degna”? Si sveglia e combatte!

Nell’ambito del dibattito sull’eutanasia e sul fine vita, vogliamo raccontare ciò che è accaduto nel 2015 a Lyndee Brown Pellettiere-Swapp.

La storia di questa madre quarantasettenne dell’Arizona – come mostra un articolo di LifeNews – ha molto da insegnarci a proposito di “vita non degna di essere vissuta”.

Quando, in un giorno di ottobre, i suoi familiari la trovarono priva di coscienza, fu immediatamente portata all’ospedale. Dopo dodici giorni in stato di coma, per i medici che la avevano in cura il verdetto era chiaro: il cervello non era morto ma lei era immobile, era cosciente ma gli organi si stavano danneggiando, per cui la cosa migliore – secondo loro – sarebbe stata privarla del supporto che la manteneva in vita.

Detto, fatto: si era ormai proceduto all’eutanasia quando accadde qualcosa di tanto inaspettato quanto straordinario. La moribonda, fino a poco prima incapace di comunicare, pronunziò le seguenti parole: “Sono una combattente”.

E’ questo quanto afferma di aver vissuto la donna nel periodo del coma. Riusciva a sentire tutto: i movimenti intorno a lei, la nipote che leggeva per lei nella stanza d’ospedale, i medici che pianificavano di spegnere il suo sostegno alla vita e, per ultimo, mentre le staccavano i supporti vitali, anche la voce del marito che le sussurrava fiduciosamente all’orecchio “Ho bisogno che combatti”. Parole che in brevissimo tempo si sono rivelate profetiche ed hanno preceduto la reazione di Lyndee.

Oggi si parla molto in ambiente medico di eutanasia come via compassionevole per far soffrire meno il paziente. Spesso, chi ha interessi a proporre questa pratica, si preoccupa di persuadere i parenti di chi – a detta loro – conduce una vita “non degna” che condurre questi ultimi alla morte sia il miglior atto di pietà nei loro confronti, un atto di amore… ma a farne le spese, di questa “compassione”, è chi non può esprimersi, proprio come Lyndee. Chissà se in quei giorni si sia sentita più amata da chi pensava ad eliminarla o da chi credeva in lei. Ora lei è ancora qui tra noi, la sua vita è un prodigio che sta a ricordarci che tutti meritano l’assistenza e le cure indispensabili alla vita e che non c’è vera compassione che porti alla soppressione, non c’è buona medicina che elimini il malato, non c’è amore gratuito che faccia sentire l’amato un peso.

Se fosse stato in Italia, all’indomani della eventuale approvazione di una legge tipo quella sulle DAT che giace in Parlamento (speriamo che “riposi in pace” per sempre...), la donna sarebbe stata sedata e affamata e assetata. E chissà se avrebbe avuto la possibilità di dire quelle due parole che le hanno salvato la vita...

Luca Scalise


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