Anch’io, come il direttore Luigi Amicone, ho accusato il colpo dell’entusiastica recensione che Repubblica ha dedicato al libro dell’anglo-indiana Aarathi Prasad su concepimento e maternità nell’epoca della tecnoscienza. Lui ha voluto denunciare la propagandistica confusione che libro e recensione intrattengono fra la libertà che l’utero artificiale rappresenterebbe e la misoginia e la stigmatizzazione della maternità che in realtà comportano. E ha voluto sottolineare che la separazione della maternità dalla donna è l’ultima tappa di una serie di scismi voluti dalla biopolitica (bel neologismo inventato da Michel Foucault) e realizzati in gran parte dalla tecnica: quello fra la donna e l’uomo, quello fra il sesso e la procreazione, quello fra i genitori e i figli, quello fra il sesso biologico e il genere sessuale socialmente inteso.
La biopolitica non può fare a meno della tecnica, è una tecno politica. Senza anticoncezionali chimici e meccanici, fecondazione assistita, aborti chirurgici in condizioni di sicurezza, farmaci abortivi, uteri artificiali, eccetera, certi discorsi incentrati sulla libertà e il potere dell’individuo non sarebbero mai diventati politicamente dominanti. Si tratta di discorsi ideologici nel senso marxiano del termine, cioè che nascondono la realtà delle cose, perché la libertà non è affatto cresciuta come si pretende di far credere.
Quando un ordine di rapporti come quello fra l’uomo e la donna presi nella loro maschilità e nella loro femminilità viene interamente sovvertito, e quando la sovversione consiste in una negazione della complementarietà dei soggetti del rapporto. Quando si accusa il rapporto di riflettere solo il predominio dell’uno e la sottomissione dell’altra, rafforzato da pregiudizi e stereotipi, allora si può stare certi che quel rapporto diventerà completamente preda delle logiche di potere, che tutto da quel momento in poi sarà questione solo di dominio e di asservimento. Anche se i fautori della sovversione terranno un discorso completamente diverso, parleranno di maggiori libertà, di nuove opportunità e soprattutto di uguaglianza.
Il discorso allude a nuove libertà e opportunità, ma il sottinteso è quello della sottomissione a un nuovo ordine totalitario, politico e antropologico insieme. La recensione di Repubblica mi dà l’angoscia, mi fa sentire imminente l’imposizione di un totalitarismo biopolitico egualitarista. Perdonate la definizione un po’ ampollosa e sgraziata, ma quel che si vede all’orizzonte della politica è proprio questo: un totalitarismo, cioè un ordine che riguarderà ogni dettaglio dell’esistenza e al quale ci si dovrà conformare per non essere sanzionati o emarginati; biopolitico perché riguarda i nostri corpi, la gestione del fatto irriducibile che sono sessuati, con un’intensità che nemmeno Michel Foucault, inventore della parola e del concetto di biopolitica, poteva immaginare; egualitarista perché il pensiero dominante che permea questa visione totalitaria della vita sociale è che la cosa più desiderabile è che tutti diventiamo uguali sotto ogni aspetto: nell’illusione che la perfetta uguaglianza farebbe sparire l’invidia, i rancori e ultimamente i conflitti.
L’utero artificiale non riesco proprio a immaginarmelo. Il mio incubo è un altro. A me la lettura del libro della Prasad fa immaginare piuttosto un mondo dove tutti, in nome dell’uguaglianza e dell’arricchimento reciproco, saranno più o meno obbligati, con l’indispensabile intervento della tecnoscienza, a fornirsi degli attributi sessuali e degli apparati riproduttivi di entrambi i sessi. Uomini e donne disporranno contemporaneamente di un pene e di una vagina (inizialmente uno e una, ma più avanti chissà), dei testicoli e dell’utero. Gli uomini dovranno, almeno una volta nella vita, concepire e partorire, le donne dovranno poter penetrare e fecondare i maschi.
Piazza Montecitorio, performance teatrale contro il femminicidio“Ma come ti viene in mente?”, direte. Confesso: m’è venuto in mente varie volte, quando in tivù passava Gad Lerner, infervorato nel ruolo di difensore della dignità della donna macchiata dagli ammiccamenti delle Veline di Striscia la notizia e dalle serate debosciate di Silvio Berlusconi, o quando vedevo Laura Boldrini lanciata in una delle sue intemerate, con volto accigliato e retorica spietata, contro il maschilismo nella società e nelle istituzioni, contro gli autori ma soprattutto contro i non autori (il 99,99 per cento dei maschi) dei femminicidi.
Devo ammetterlo, quando vedevo i loro volti sdegnati, mi pareva di poter leggere dentro ai loro pensieri, e di scoprire in fondo ad essi un disgusto irrefrenabile per due fatti scandalosi: il primo è che gli uomini non partoriscono, il secondo è che le donne non hanno il pene: due diseguaglianze inaccettabili, due ingiustizie che la natura, reazionaria e bigotta, ha inflitto agli esseri umani, ma che gli esseri umani sapranno rettificare grazie alla politica progressista e alla tecnoscienza.
Non sono ovviamente soltanto le icone ansiogene di Lerner e della Boldrini a farmi temere l’avvento imminente del totalitarismo biopolitico egualitarista (che è molto di più della cosiddetta “agenda Lgbt” o dell’ideologia del genere, le quali sono piuttosto strumenti per il fine). Ci sono fatti. Fatti come l’esperimento sociale all’insegna dell’assolutizzazione dell’uguaglianza di genere nel quale la Svezia si è lanciata fra gli applausi dei progressisti di qua e di là dell’Atlantico. Fino a pochi anni fa la religione di Stato in Svezia era il cristianesimo luterano, adesso è l’uguaglianza di genere. Sapete tutti, perché l’avete letto su Tempi, che nel paese che fu di Ingrid Bergman lo Stato ha stabilito un sistema di incentivi e disincentivi per far sì che il congedo parentale sia usufruito dai due partner equamente al 50 per cento. Sapete pure che la Svezia è il paese di Egalia, l’asilo infantile dove ci si rivolge ai bambini col pronome neutro “hen”, inventato di sana pianta negli anni Sessanta dagli antesignani della teoria del gender e approdato nell’enciclopedia nazionale svedese nel 2012.
Su un numero di Time del dicembre scorso è apparso un reportage sulla Svezia mecca dell’uguaglianza di genere dove la scuola materna diretta da un’ultrafemminista è descritta così: «Ci sono camion e bambole, ma nelle sale colorate predominano soprattutto giocattoli neutrali come il Lego e i dinosauri. La libreria è attentamente calibrata per far sì che i libri contenenti storie con protagonisti maschili e protagonisti femminili siano dello stesso numero. Bambini e bambine fanno roteare allo stesso modo sciarpe di seta durante i balli in classe, e hanno ugualmente accesso a costumi da pirati e da principessa». Chi ha deciso che un bebé deve avere lo stesso numero di ore di cure da parte della mamma come del papà? Che i giocattoli “neutrali” sono più meritevoli di quelli sessualmente connotati? Che i libri di favole devono essere politicamente corretti e rispettare “quote rosa”? Non certo la buona scienza, che testimonia la profonda differenza esistente fra maschi e femmine, e l’assurdità di voler costringere tutto dentro al discorso dell’uguaglianza e delle spartizioni al 50 per cento.
La scienza sa che le differenze fra maschi e femmine non sono confinate alla diversità degli apparati riproduttivi e dei caratteri sessuali secondari. A queste differenze biologiche corrispondono anche differenze nelle connessioni neurali del cervello e queste sono il substrato di un diverso psichismo, di una differente organizzazione psicologica ma anche gnoseologica: uomo e donna non conoscono il mondo nello stesso modo. Una mamma, tranne casi di grave malattia mentale, sarà sempre più adatta di un padre a dispensare cure ai figli piccoli; e un maschio sarà sempre più adatto di una femmina quando si tratterà di fare il vigile del fuoco o costruire un oleodotto. Ma la nuova religione del gender ha imposto i suoi dogmi razionalmente indimostrabili, secondo i quali ogni differenza socialmente rilevante fra uomo e donna è prodotto di un abuso di potere che va rettificato per imporre la norma dell’uguaglianza.
Premesso questo, c’è un passaggio nel reportage che tristemente avvalora il mio incubo di un imminente mondo ermafrodito per legge o per intensa pressione sociale e culturale. È la dove la direttrice spiega come ha “convertito” i genitori dei marmocchi all’uguaglianza di genere. Dice di essere andata alla lavagna e di avere disegnato, di fronte alle famiglie riunite, un cerchio, poi di averlo diviso a metà e di avere vergato scarabocchi incomprensibili nell’una e nell’altra metà. «Queste a destra sono le cose per le ragazze, e queste a sinistra sono le cose per i ragazzi. Volete che la vita del vostro bambino sia chiusa in un semicerchio o che usufruisca del cerchio intero?». Geniale. Portato alle logiche conseguenze estreme, l’argomento implica che, non appena possibile, anche i rispettivi apparati riproduttivi, e le rispettive caratteristiche morfologiche (la barba degli uomini, il seno delle donne, eccetera) debbano poter essere messi a disposizione degli uni e delle altre, delle une e degli altri. Perché accontentarsi della metà quando, grazie alla tecnoscienza, si può avere tutto? All’uguaglianza non ci sono limiti. Così come all’invidia.
Vale la pena lottare, a livello di battaglie culturali e di impegno politico, contro questa deriva antropologica apparentemente inarrestabile? Nel mio mondo di riferimento, che è quello di chi si dice cristiano, colgo due atteggiamenti: uno militante e combattivo, che asserisce che la testimonianza cristiana nella società implica anche il dovere di impegnarsi affinché le leggi si conformino a verità che sono di natura razionale e di diritto naturale prima che di rivelazione divina, e quindi contro la sovversione biopolitica egualitarista, ostacolandola in tutti i modi; e poi c’è un atteggiamento remissivo e “profetico”, che dice pressappoco così: contro il megatrend attuale è inutile combattere, si tratta di una parabola storica inarrestabile; bisogna impegnarsi piuttosto a creare isole di umanità autentica, nuovi monasteri dove coltivare la dipendenza dal divino che rende possibile la vita buona in forme sia personali che comunitarie, in attesa di tempi storici migliori.
Personalmente preferisco di gran lunga il primo atteggiamento, ma capisco anche le ragioni del secondo: non è per forza segno di vigliaccheria l’appello a stare fuori dalla partita della storia, può anche essere un giudizio prudente che nasce da un’intelligenza reale della situazione prevalente e che giunge alla conclusione che la partita odierna non può essere vinta. Tuttavia ai neo-monastici muovo una grave obiezione. Al di là della discussione sulle probabilità nulle oppure no di vittoria nel contesto storico attuale, c’è un problema di cui molti non sembrano rendersi conto: se non si esercita appassionatamente la ragione e l’impegno culturale sui temi che la contemporaneità propone – e il tema di oggi è l’imposizione del regime del gender, poche storie –, se non si partecipa in modo serio e competente al dibattito sociale e alla lotta politica, se non si producono discorsi, riflessioni, libri e iniziative pubbliche dotate di dignità culturale sugli argomenti all’ordine del giorno della storia, si finisce per pensarla esattamente come i padroni dell’egemonia culturale vogliono. Si finisce per conformarsi al pensiero dominante.
San Paolo ha scritto quasi duemila anni fa: «Non conformatevi» (Rm 12,2). Chi smette di impegnarsi nella politica e di produrre giudizi culturali specifici e competenti, finisce per conformarsi. Consiglio ai neo-monastici di leggersi qualche libro di antropologia e di psicologia, per rendersi meglio conto dei meccanismi profondi del conformismo sociale.
Quando dico “impegnarsi in politica” non mi riferisco principalmente alla partecipazione alle attività di un partito politico, come dirigenti o come semplici militanti, ma all’impegno collettivo nello spazio pubblico. È tempo di movimenti popolari. In assenza dei quali, succederà in Italia quello che è già successo in altri paesi. Lo abbiamo già visto nei paesi protestanti del Nord Europa, dove la riduzione della fede alla sfera personale ha prodotto l’estinzione virtuale delle Chiese.
Qui però io vorrei proporre una specie di mediazione fra le due linee di pensiero e di azione sopra descritte, quella militante e quella neo-monastica. Una mediazione decisamente idealistica e molto provocatoria. Frutto di una certa stanchezza, se volete. Consideratela il prodotto dell’angoscia esistenziale di uno che nel giro di poco più di cinquant’anni s’è ritrovato a vivere in una civiltà completamente differente da quella in cui era nato.
Nell’Italia in cui sono nato non vigeva nemmeno una legislazione per il divorzio, il massimo di distanza possibile fra due persone che si erano sposate (un uomo e una donna, ovviamente) era la separazione legale. Adesso rischio seriamente di chiudere gli occhi su un mondo dove non basterà sentire pronunciare le parole “Aldo si è sposato settimana scorsa” per essere certi che il coniuge sia una donna, e dove la frase “Anna non ha mai conosciuto suo padre” non significherà necessariamente che la bambina è figlia di una ragazza madre o che suo padre è morto quando lei era piccolissima. Potrebbe voler dire che la sua è una famiglia omogenitoriale formata da due donne che l’hanno concepita con la fecondazione eterologa.
Quel che io propongo lo definirei una forma di “neosionismo”.
Avete presente il sionismo? Il movimento per la creazione di una patria ebraica? Nacque dalla considerazione che per gli ebrei era diventato impossibile vivere la loro pratica religiosa e le loro tradizioni nell’Europa dei nazionalismi, teoricamente aperta a riconoscere i loro diritti di cittadinanza più degli stati monarchici e cristiani, ma che nella realtà attuava un’omologazione insopportabile e lasciava la porta aperta ai casi Dreyfus. Israele nacque, al termine di una guerra contro gli stati arabi, cinquant’anni dopo il primo congresso sionista come lo Stato dove gli ebrei potevano autodeterminarsi politicamente sulla base della loro storia, dei loro valori e delle loro tradizioni, a prescindere dal fatto che fossero praticanti o non praticanti, credenti o non credenti.
Ora, io credo che sia venuto il tempo per istituire qualcosa del genere all’interno del mondo occidentale. Oggi sta diventando impossibile, nei nostri paesi, vivere sulla base della legge naturale che è iscritta nel cuore di ogni uomo, ma che non tutti sono disposti a riconoscere. I fautori del totalitarismo biopolitico egualitarista hanno instaurato una guerra civile permanente contro chi la pensa diversamente da loro e vuole vivere come si è sempre fatto. Vogliono non solo imporci nuove, false, sovversive istituzioni come il matrimonio fra persone dello stesso sesso, non solo eliminare i deboli e gli anziani con la truffa dell’eutanasia (un’altra falsa libertà, in realtà uno stratagemma per ridurre i costi economici di un welfare tutto statalista), non solo legalizzare le droghe per meglio controllare il popolo rimbambito (la cannabis è solo il primo passo della liberalizzazione di tutte le droghe, non lo avete ancora capito?). Vogliono soprattutto costringerci a parlare e alla fine pensare come loro (la legge contro l’omofobia è solo un inizio di provvedimenti contro la libertà di parola, finalizzati al controllo del modo di pensare della gente) e vogliono soprattutto fare il lavaggio del cervello ai nostri figli e nipoti a scuola, con lezioni di educazione sessuale e di teoria del gender sin dalle scuole elementari che in realtà sono vere e proprie violenze psicologiche contro i bambini e tentativi di corruzione dei minorenni.
Contro tutto questo è impossibile difendersi, perché anche quando si vince una battaglia politica, dopo qualche anno arriva la sentenza di una Corte di Cassazione italiana o di una Corte dei diritti umani europea o di una Corte costituzionale degli Usa che ribaltano leggi sulla fecondazione assistita o sul matrimonio approvate dalla maggioranza dei cittadini attraverso referendum o votando per partiti disposti a difendere i valori tradizionali.
Che fare allora? Propongo di dividere i territori dei paesi d’Europa in base alla percentuale di persone favorevoli e contrarie all’agenda Lgbt. Ognuno potrà portare avanti il proprio programma politico nel territorio di pertinenza: i liberal potranno farsi tutte le canne e le pere che vorranno, potranno sposarsi come vogliono, anche a gruppi di 10 persone di cinque diversi orientamenti sessuali (L, g, b, t, etero), potranno praticare l’eutanasia senza limiti, manipolare gli embrioni come neanche uno scienziato pazzo riuscirebbe a immaginare, potranno praticare aborti anche retroattivi fino al terzo mese di vita del bebé (è un’idea di Peter Singer, il filosofo australiano). Invece dall’altra parte si farà esattamente il contrario: cioè niente di tutto quello dianzi elencato, si conserveranno abitudini e proibizioni vigenti, si rispetterà l’antica istituzione del matrimonio monogamico fra uomo e donna, e in più si comincerà a dare un giro di vite alle legislazioni abortiste e si ripristinerà la legge 40 italiana sulla fecondazione assistita così com’era prima che i magistrati la sfigurassero.
Ma soprattutto l’impostazione culturale e la visione antropologica delle due entità politiche sarebbero profondamente diverse: nella prima si continuerebbe a mettere i capricci dell’individuo al di sopra di tutto, a piegare la natura e lo stesso corpo umano alla volontà volubile e senza freni del singolo, Dio di se stesso; nella seconda l’uomo si sforzerebbe di mettersi in ascolto della natura, di cercare nella realtà le tracce di un ordine che precede l’uomo, e al quale l’uomo tenterà di armonizzare sia la propria personale volontà che l’organizzazione sociale. Piena libertà religiosa, nessuna religione di Stato, ma una chiara scelta a favore del mettersi in ascolto della realtà per cercare di comprendere la parola, più grande di noi, che essa continuamente pronunciata. Questo lo diceva anche Martin Heidegger, che pure era ateo.
Prendetela pure come una provocazione, come la reazione di un ultracinquantenne esasperato. Ma ai liberal, agli ultraprogressisti e ai sostenitori dell’agenda Lgbt che non apprezzeranno la provocazione dico: avete presente il concetto di tutela della biodiversità? Se ne parla a proposito di agricoltura e di problemi ambientali. Si dice che le grandi monocolture basate su poche sementi selezionate dalle grandi multinazionali rischiano di impoverire la biodiversità vegetale, cioè di provocare l’estinzione di molte varietà vegetali. Più diventerà povero il corredo biologico delle specie coltivate, e più aumenta il rischio che pesti e patologie delle piante annientino i raccolti e portino il mondo alla fame. Bisogna tutelare la biodiversità, non bisogna ridurre le coltivazioni a poco immense monocolture, perché un domani potremmo pagarla cara, forse con l’estinzione della razza umana.
Ecco, io propongo di applicare lo stesso principio alla vita politica: per favore, potentissimi signori liberal, voi Hollande, voi Obama, voi Zapatero, permettete a chi vorrebbe vivere in società secondo regole diverse da quelle che voi vorreste imporre a tutti gli esseri umani di farlo. Permettete un po’ di biodiversità nel campo della biopolitica. Forse è meglio che ci sia in futuro qualche paese dove le droghe non sono tutte liberalizzate, o dove i figli sanno veramente chi sono i loro genitori biologici (coi matrimoni omosex e con le fecondazioni eterologhe saranno sempre di meno a saperlo), o dove gli anziani e i malati mentali non sono sospinti verso il suicidio di Stato. Forse quei paesi potrebbero rappresentare una riserva di umanità, di valori, di motivazioni, di spirito di sacrificio eccetera che verrà utile nel mondo di domani. Il mondo che voi avrete portato al tracollo a causa dell’assolutizzazione dell’individualismo e dell’egualitarismo. Per favore, lasciateci vivere a modo nostro e prosperare: potremmo essere l’ancora di salvezza della razza umana nel caso che i vostri esperimenti di palingensi biopolitica egualitarista finissero male.
“Ma in che senso questa proposta è una mediazione fra militanti e neo-monastici?”, vi starete chiedendo. Nel senso che concilia le preoccupazioni delle due diverse sensibilità. La convinzione dei secondi, per cui un certo tipo di socialità, improntata ai valori cristiani e al riconoscimento di una natura umana che ha bisogno di dipendere da qualcosa che viene prima di sé, si può realizzare soltanto in un ambito circoscritto; e la convinzione dei primi, secondo cui la dimensione politica è comunque essenziale e ineliminabile, perché propria della natura umana.