Gianna Jessen, sopravvissuta ad un aborto salino al sesto mese di gravidanza, può darsi che torni presto in Italia per un altro ciclo di conferenze.
Lei si definisce “un miracolo”, per essere scampata all’aborto.
E di miracoli come il suo ne accadono più di quanto si creda. Purtroppo la maggior parte dei piccoli sopravvissuti sono destinati a morire di stenti sui tavoli operatori o tra i rifiuti ospedalieri. Molti vengono soffocati (sarebbe capitato anche alla Jessen, se il medico che aveva praticato l’aborto non fosse andato a casa). M a qualcuno si ostina a voler vivere davvero a tutti i costi.
Per esempio, la scorsa settimana, in Francia a Boulogne-sur-Mer nel Pas-de-Calais, la signora Delage è stata convinta all’aborto “terapeutico” (notare le virgolette: l’aborto non è una terapia, non cura, ammazza) all’ottavo mese: i medici le hanno detto che il bambino sarebbe stato paralizzato e non poteva mangiare o bere. Praticano l’aborto con una doppia dose di iniezione letale nel cordone ombelicale, per avvelenare il bambino e poi inducono il travaglio.
E il bambino nasce vivo! Piange, mangia e si muove, smentendo la diagnosi che aveva indotto la mamma all’aborto.
Purtroppo, però, l’iniezione letale ha danneggiato in modo grave ed irreversibile il cervello del piccolo, che è rimasto seriamente handicappato. Né si sa se riuscirà a superare i primi mesi di vita visto che è stato avvelenato.
Non ci stupirebbe se qualcuno proponesse l’eutanasia: per finire l’opera. Magari, che ne so, con un colpo di pistola, se la creatura si ostinasse ancora a non voler morire. Del resto se il piccolo handicappato dovesse sopravvivere e crescere, sarebbe una presenza davvero ingombrante, costringerebbe molti a riflettere, a pensare, a valutare responsabilità ... e magari indurrebbe qualcuno al rimpianto.
Redazione
Fonte: Il Sussidiario
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