“Ciò che veramente spinge all’aborto è la chiusura del cuore e della mente all’accoglienza, di chi, in fondo, non si sente accolta”. Rileggiamo la testimonianza di una psicoterapeuta pubblicata sul mensile Notizie ProVita dell’aprile 2013.
Si intitola “Ascoltare, per aprire un cuore chiuso”.
Quando mi arrivò la telefonata di S. rimasi per un momento sconcertata. Era padre di un bimbo concepito con E. che lei voleva abortire e per cui aveva già il certificato redatto e l’appuntamento fissato.
S. aveva già chiamato più persone prolife, avevano incontrato sia operatori sanitari nel consultorio, sia realtà a difesa della vita, ma non c’era nulla da fare. E. voleva abortire. Non vi erano né problemi economici, poiché entrambi lavorano, né di casa, né altro… ma vi era il solito e unico problema che porta le donne ad abortire: la chiusura del cuore e della mente ad una creatura concepita e che ha solo bisogno di essere accolta, alla quale bisogna fare posto fisico, psichico e spirituale.
Ma come fare, dato che E. aveva già parlato con tutte queste persone e percepiva le azioni di S. come un sopruso sulla sua libertà? Chiesi a S. di darmi il suo cellulare. Provai a chiamare. Nessuna risposta. Inviai un semplice sms con il seguente testo, che ancora conservo: “Avrei piacere di conoscerti poiché non vorrei che una persona splendida come te, con l’azione che sta per fare, si distruggesse la vita”. La risposta non tardò ad arrivare: “Come fai a sapere che sono una persona splendida?”
A quel punto chiamai e le spiegai tutti i motivi che la rendevano splendida, preziosa. E. si mise a piangere dicendomi che non capivo. C’erano solo 2 giorni prima della data fissata per l’aborto. Poco tempo. Poi fu la Provvidenza a rendere possibile l’incontro, a seguito del quale capii cosa la turbasse. Era sempre stata considerata la figlia di serie B e sua madre anche in quest’occasione non le risparmiava critiche.
E. aveva avuto un incidente, e la madre spingeva per l’aborto in quanto, a dir suo, non poteva far fronte alle necessità di un neonato, senza peraltro assicurare aiuto pratico. Infine, la convivenza con S., che durava da anni, non la rassicurava per il futuro. Ogni atteggiamento di S., E. lo viveva come una mossa di potere su di lei.
Non fu facile sbrogliare i nodi. Valorizzare tutto ciò che aveva fatto nella vita, persino reimparare a parlare e camminare dopo l’incidente. Aveva mostrato coraggio e forza di volontà, aveva continuato il suo lavoro impegnativo nella sanità, la gestione della casa. Ma soprattutto doveva fare una bella distinzione tra ciò che gli altri potevano pensare di lei e ciò che lei, invece, sapeva di se stessa.
Un pianto a dirotto sancì la fine di quel colloquio. Non mi dette il certificato, voleva ancora pensarci. Nei 2 giorni successivi non ricordo più quanti sms e telefonate mi fece per essere certa che io continuassi a starle vicina. La mattina fissata per l’aborto E. non andò. Mi volle rivedere.
Cominciò allora l’ascolto sistematico di tutto ciò che turbava il suo cuore. Mi mandò via mms la foto dell’eco della piccola M., che è nata non molto tempo fa e che tra poco sarà battezzata. Alcune cose si sono sistemate, con la madre e la sorella. Con S. ci sono ancora problemi relazionali acutizzati dalla nascita della piccola, ma vederla felice con la bimba in braccio è una gioia per gli occhi e per il cuore. La prima volta che presi M. in braccio si aggrappò sorridente a me in maniera del tutto inusuale e mentre mi guardava sua madre disse: “Sta guardando l’angelo custode in terra che il Signore le ha mandato”. E ripensando a quella frase ti rendi conto di quale responsabilità abbiamo tutti noi che facciamo colloqui di salvataggio, e ancora la commozione sale agli occhi.
Cinzia Baccaglini