Oggi, durante l’udienza pubblica della Corte Costituzionale chiamata a esprimersi sulla legittimità del requisito di “trattamento di sostegno vitale” nei casi di suicidio assistito, quattro persone affette da gravi patologie irreversibili sono state ammesse a intervenire. Si tratta di cittadini che, pur convivendo con malattie invalidanti, sono in grado di intendere e volere e hanno espresso la volontà di prendere parte al procedimento per spiegare le proprie ragioni contrarie a un ulteriore allargamento dell’accesso alla morte medicalmente assistita.
Secondo i loro legali, gli avvocati Carmelo Domenico Leotta e Mario Esposito, l’eliminazione del requisito del trattamento di sostegno vitale – già previsto nella sentenza 242 del 2019, quella sul famoso caso Dj Fabo-Cappato – finirebbe per indebolire le tutele costituzionali sul diritto alla vita. Una posizione che i quattro malati - Maria Letizia Russo, Lorenzo Moscon, Dario Mongiano e P.F. - hanno voluto sostenere direttamente dinanzi ai giudici della Consulta, fornendo le proprie testimonianze personali. Le loro parole offrono uno sguardo diverso sulla questione, spesso affrontata solo dal punto di vista di chi rivendica un “diritto a morire”.
«Lo Stato deve proteggermi, anche da me stessa»
Maria Letizia Russo è giunta al Palazzo della Consulta su una sedia a rotella e la sua riflessione - raccolta dai cronisti all’esterno dell’Aula dell’udienza - è partita da un punto cruciale: la difficoltà di valutare se una scelta sia davvero libera quando è condizionata dalla sofferenza e dal senso di peso verso i propri familiari. «L'autodeterminazione - ha affermato - è viziata dal dolore e anche dal peso che sentiamo di essere sulle spalle delle nostre famiglie. Mi piacerebbe uno Stato che dicesse che la mia vita è importante e la difende da tutti, anche da me. Non si può fare affidamento sulla mia volontà nel momento di debolezza». Secondo Maria Letizia, infatti, l’articolo 580 del Codice penale, che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio, non rappresenta un ostacolo alla libertà individuale, ma una necessaria “cintura di protezione”: «Ci può essere un momento di sconforto e il diritto alla autodeterminazione sarebbe viziato. È come se parlassi di volontà libera di un bambino che dice ‘lo voglio’. Posso considerarla volontà o è una volontà viziata dalla minore età?».
«No a pericolose derive»
Anche Lorenzo Moscon ha spiegato alla stampa, già nei giorni scorsi, le ragioni per cui considera importante mantenere il requisito del trattamento di sostegno vitale come condizione per l’accesso al suicidio assistito. Secondo Moscon, eliminare questo limite rischia di portare a esiti preoccupanti: «Chi aiuta qualcuno a suicidarsi dovrebbe essere punito. Ma se proprio si depenalizza, almeno il fatto di ricevere un sostegno vitale deve restare un requisito minimo». Ha inoltre messo in guardia dai rischi culturali connessi a un possibile cambiamento di mentalità, che potrebbe spingere la società – anche inconsapevolmente – a considerare alcune vite come meno degne di essere vissute: «Si stanno compiendo una serie di passi che, come già successo in altri Stati europei, un domani potrebbero portare qualcuno – che sia un giudice, un medico, o entrambi – a decidere chi può vivere e chi no. Non voglio criminalizzare nessuno, ma è un problema culturale».
«Stato aiuti a vivere meglio»
Infine, la testimonianza di Dario Mongiano – affetto sin dalla nascita da tetraparesi spastica e da una forma grave di asma – ha portato alla luce un timore concreto: quello di essere lasciati soli nel momento della sofferenza, senza più uno Stato che protegga e accompagni. «Chiedo allo Stato di aiutarmi a vivere al meglio - ha affermato, come riportato anche da un precedente articolo di Avvenire - non di aiutarmi a morire o di lasciarmi da solo a decidere davanti al buio del dolore e della disperazione». Secondo Dario, rendere più semplice l’accesso al suicidio assistito metterebbe ulteriormente a rischio la vita di chi, come lui, affronta quotidianamente prove durissime: «Se passasse questa idea, anche io potrei richiederlo. E non voglio che lo Stato mi dia questa possibilità. La mia vita sarebbe meno protetta perché tutto dipenderebbe dalla mia capacità di resistere al dolore. In certi momenti è difficile farcela da soli».
Una prima volta storica
In attesa del pronunciamento da parte della Corte Costituzionale, c’è stata oggi comunque grande soddisfazione poiché si è trattata di una prima volta storica, come hanno dichiarato gli avvocati Carmelo Domenico Leotta e Mario Esposito. Per la prima volta, infatti, sono stati riconosciuti come «portatori di interesse a partecipare al processo» malati con prognosi infauste che si oppongono al suicidio assistito. Una «grande vittoria» la definisce l’avvocato Leotta, rafforzata dalla posizione espressa dall'avvocato dello Stato Ruggero Di Martino, che nel suo intervento ha ribadito che non c’è «un diritto al suicidio né un obbligo dei medici di concorrere a una volontà suicidaria».