Evidentemente la società non ha ancora ben chiaro cosa sia un aborto. Ecco perché è tragicamente possibile che l’Alta Corte di Londra abbia stabilito che una donna disabile dovesse abortire suo figlio.
Non è passato molto tempo quando avevamo presentato una vicenda molto simile a questa. In quel caso, però, i giudici accettarono di non costringere la donna all’aborto di affidare il nascituro ai nonni.
La ragazza, spiega Il Giornale, ha un deficit cognitivo che le ha impedito di raggiungere una età mentale adulta, motivo per cui i giudici hanno ritenuto che la giovane non fosse in grado di «ottemperare alle funzioni proprie di una madre».
Il tutto, quindi, in nome di quell’ormai immancabile “best interest” che negli ultimi tempi sta provocando una vera e propria strage degli innocenti.
A peggiorare la situazione, spiega un articolo di Avvenire, è il fatto che «l’aborto chirurgico è auspicato anche dalla famiglia adottiva con cui la giovane, originaria dell’Inghilterra del nord, ha vissuto gran parte della sua vita prima di essere affidata ai servizi sociali».
Ma insomma, ci rendiamo conto che un bambino innocente è stato condannato a morte?
Si potrebbe assistere la donna per tutto il percorso della gravidanza e poi, se davvero non la si ritiene minimamente idonea a svolgere il ruolo genitoriale, dopo il parto si potrebbe affidare il bambino ad una famiglia adottiva.
Invece no, il bambino deve morire, anche se non ha nessuna colpa. È quanto mai insensato e crudele considerare ciò il “miglior interesse” di qualcuno. Tra l’altro, l’aborto procurato lascia il segno anche nella vita della madre e spesso nella sua salute fisica e mentale.
Dov’è, allora, la tutela della ragazza e quella di suo figlio?
di Luca Scalise